Luino | 26 Gennaio 2021

“Quel giorno che arrestarono don Folli”: testimonianze e frammenti della storia luinese

Per la Giornata della Memoria lo scrittore Carlo Banfi offre alcuni stralci di un libro scritto con Bernardo Pastori, su quanto accaduto a Voldomino tra il ‘43 e il ‘45

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In occasione della Giornata della Memoria, anche lo scrittore Carlo Banfi ha voluto condividere alcune testimonianze contenute nel libro, attualmente in stampa, intitolato Lettere di un alpino della Monterosa, del quale abbiamo parlato anche sulle nostre pagine lo scorso marzo.

Si tratta, nella fattispecie di brani del luinese Bernardo Pastori, coautore del volume, mentre le lettere – come ricorda Banfi – appartengono al fratello Carlo, ormai scomparso.

Questi stralci ripercorrono quello che accadde a Voldomino negli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale, soffermandosi in questo caso sui passaggi clandestini della frontiera.

Dalle pagine emergono figure di persone che lo scrittore originario di Caronno Pertusella – ma residente anch’egli nel Luinese – definisce “umili”, spesso trascurate dalla storia ufficiale. Una di queste è quella di Rino Maccagnini.

Quel giorno che arrestarono don Piero Folli – Testimonianza di Bernardo Pastori

Il giorno – credo – 3 dicembre ’43 di buon mattino arrivarono in piazza a Voldomino Superiore alcuni automezzi carichi di repubblichini e tedeschi. Chiesero informazioni ai presenti sul Berzi. Gli indicarono la casa, proprio sull’angolo della piazza. Entrarono e trovarono il Berzi Pietro a letto. Lo presero e con i loro metodi lo buttarono in piazza, trattandolo di conseguenza. Poi si accorsero che non era lui il ricercato
(era un ragazzo di 17/18 anni), lo lasciarono come uno straccio e si diedero da fare per il Berzi Tullio, che abitava venti metri dal Pietro.

Entrarono e trovarono la mamma col figlio Bernardo (età 4/5 anni). Interrogata, la mamma non disse dov’era il Tullio e dopo maltrattamenti, buttato in aria la casa, rubato alcune cose, vennero a sapere che di fronte abitava il fratello Ludovico. Sfondarono la porta, invasero l’abitazione dove sorpresero il Ludovico, la moglie Eva e la figlia Eda di 5/6 anni, tuttora vivente. Insistettero con botte, legnate, anche alla moglie, ma non rivelarono dov’era il Tullio.

Buttarono dalla portafinestra del primo piano tutta la camera da letto e masserizie varie. Io abitavo a dieci metri di distanza e, oltre a vedere, sentivo i lamenti e il pianto di Eva e di Eda, e le grida e i lamenti quando li picchiavano. Ci rimasero fino al primo pomeriggio quando caricarono tutti sui camion. In sostanza il Ludovico fu carcerato perché era fratello di Tullio e non disse dov’era. Va pure precisato che ambedue erano passatori e contrabbandieri che collaboravano col parroco a trasferire in Confederazione Elvetica ebrei e prigionieri di guerra evasi dai campi di concentramento.

Il Tullio, ricercato in primis, quel giorno di buon mattino si recò a Varese, pare per una visita medica. In quel trambusto il paese seppe quello che stava succedendo e una famiglia vicina di casa e forse amica, che aveva un negozio di alimentari e quattro figlie, era a conoscenza che il Tullio era a Varese. Cosa fecero? Una delle ultime due figlie, 18 e 22 anni, si ingegnò per salvarlo. Prese il primo tram per Varese e arrivata in Valganna, località Miniera, dove i due mezzi si incrociavano essendo una linea a binario unico, si piazzò in mezzo ai due binari e, quando sopraggiunse il mezzo proveniente da Varese, si fece notare e il Tullio su quel tram di ritorno fu informato della situazione. Fuggì immediatamente a piedi verso la Valmarchirolo/Ponte Tresa e andò in Svizzera, cosa non difficile per lui. Quando rientrò, non lo so. Una
delle due sorelle è ancora vivente. Una seconda squadra di fascisti si era invece interessata di don Folli. Devo dire che qui non ho visto niente, ma con la mia curiosità seppi come andò.

La canonica, ubicata dietro la chiesa, era piena di ebrei. Pare fosse presente anche Pio Alessandrini, poi senatore della Repubblica, che riuscì a fuggire. Quello che avvenne con don Folli per quella gente era di routine: maltrattamenti, legato alla cancellata, sputi, furti, disastri e sporcizia in casa e nello studio, distruzione di documenti della parrocchia… Fu trattenuto al freddo, in quelle condizioni, fino verso sera quando lo caricarono sul camion col Berzi e Gino Moroni e il gruppo di ebrei, pare fossero quattordici, fra cui donne, vecchi e bambini. Di questi ultimi non si seppe più nulla.

Una terza squadra si occupò di rastrellare il paese. Non fecero molti disastri, si fa per dire, ma presero tutti gli uomini rimasti, li portarono in piazza, contro la cancellata della chiesa, e li trattennero fino a sera, sotto la minaccia delle armi e il terrore della fucilazione. Li liberarono a tarda sera, quando se ne andarono. Durante il rastrellamento sorpresero il Moroni Gino, per noi Dante, che in qualità di postino stava svuotando la cassetta della posta da portare a Luino, posta centrale per la spedizione. Lo fermarono e lo interrogarono, in quanto postino doveva sapere che dalla Curia di Milano e da quella di Genova arrivava tanta corrispondenza e lui avrebbe dovuto segnalare il fatto alla milizia… e accuse del genere. Fu trattenuto e quindi portato via con don Folli e Berzi.

Quello che avvenne poi a San Vittore è storia conosciuta. Si trovarono con Sassi Secondo di Germignaga (fabbro comunista legato alla resistenza) e altri, nonché con Mike Bongiorno, carcerato. Quando don Folli ritornò, lo si vide che non era più lui, anche se riprese a cuore la parrocchia. Morì l’8 marzo 1948 all’ospedale di Luino, dopo aver mantenuto fede a impegni presi, come la costruzione della cappella alla Gera a ricordo dei partigiani fucilati.

Nota triste ma per segnalare che io molto spesso mi trovavo inconsapevolmente a contatto con la storia. Quando don Folli morì, mi trovavo in ospedale a Luino per una frattura al femore, reparto chirurgia: stanzone di dodici posti, più due camerette. Don Folli in una cameretta privata, nella parte centrale del vecchio ospedale. La camera a lui riservata faceva parte del reparto ostetricia e lì c’era una giovane ostetrica di Biviglione, coscritta e amica di mio fratello Carletto, la quale conoscendomi ne parlò a don Folli, così spesse volte mi mandava i saluti, gli auguri, mi raccomandava le preghiere e si interessava della mia salute. Quando morì, la ostetrica corse a comunicarmelo. Non potei andare a trovarlo perché ero inchiodato in un letto, in trazione, e ci rimasi per 42 giorni fino al 2 aprile ‘48.

Da Pierangelo Frigerio, Travalia 1975 – Studi su Luino e “gli immediati dintorni” – Biblioteca Civica di Luino.
Francesco Repetto, sacerdote della curia arcivescovile di Genova: lettera di risposta a un questionario inviato dagli autori.

“Nella sua lettera ella chiedeva di potersi mettere in contatto con quel sacerdote genovese che venne arrestato insieme con don Piero Folli, l’eroico parroco di Voldomino, durante un tentativo di espatrio di ebrei il 3 dicembre 1943. Le scrivo io, in quanto fui collaboratore di quel sacerdote genovese, che si chiamava Gian Maria Rotondi e che è già passato a ricevere il premio del Signore, sette anni or sono.

Il gruppo che fu arrestato con i due sacerdoti era di circa una quindicina (uomini, donne, bambini), in massima parte ebrei non italiani (polacchi, tedeschi, forse qualche olandese). Essi dopo essere stati sbattuti dalla persecuzione nazista attraverso tutta l’Europa si trovavano in un campo di concentramento francese (Saint Martin de Vesubre, presso Besançon) quando l’8 settembre 1943, all’annuncio dell’armistizio in Italia e sperando nella pronta liberazione degli alleati, fuggirono da quel campo, forse in un centinaio, e varcarono la vicina frontiera, ospitati, nei primi giorni, da parroci del cuneese (Festione, Borgo S. Dalmazzo…). Purtroppo l’avanzata alleata si fermò, l’inverno si avanzava ed essi venivano segnalati come stranieri sospetti in quei piccoli paesi.

Avutane la segnalazione a Genova (dove si era organizzato un comitato clandestino di assistenza agli ebrei, composto di sacerdoti e per diretta iniziativa del card. Arcivescovo Boetto) si procurò di toglierli da quei paesi del cuneese, per istradarli al sud e soprattutto a Roma, ma con soste di attesa, più o meno lunghe, a Genova, in istituti religiosi. Successivamente questo istradamento che per le prime volte si era realizzato felicemente divenne pericoloso o impossibile ed allora da Genova si organizzò l’esodo di coloro che lo chiedevano in Svizzera.

Alcuni nuclei rimasti nascosti a Genova videro il giorno della liberazione. Il gruppo di ebrei arrestato con don Folli e don Rotondi, quel 3 dicembre, non era il primo che proveniva da Genova, sempre guidato da don Rotondi, ma forse era già il terzo o il quarto ed anche ogni gruppo precedente era stato ospitato da don Folli nella canonica di Voldomino, nell’attesa del momento propizio per il passaggio. L’ultima volta erano già arrivati, sul far della notte, alla linea di confine e stavano per varcarla ma trovarono schierate le guardie di frontiera svizzere che intimarono loro di tornare indietro perché, proprio in quei giorni, il governo elvetico aveva decretato la chiusura della frontiera (credo che tale chiusura sia durata poco tempo). Essi perciò dovettero riportarsi alla canonica di don Folli e trascorrervi la notte ma sull’alba avvenne la razzia…

Dei componenti lo sventurato gruppo uno solo riuscì ad evitare la cattura e tornò precipitosamente a Genova per portare la notizia: ma ora, a distanza di tanti anni, non saprei come poterlo rintracciare. Tento tuttavia di farlo anche se con poco speranza di riuscita. Di don Folli non so dir altro che questo: un cenno prezioso su di lui, che raccolsi dalla viva voce di don Rotondi, mi fece capire che egli era un sacerdote di silenziosa pazienza, di umile e fervida carità nell’oblio totale di sé stesso. Ignoro se don Rotondi abbia lasciato delle memorie sui fatti da lui vissuti. Anch’egli era un sacerdote di grande abnegazione, di finissima spiritualità; di lui sono a stampa tre libri di fervorose meditazioni.”

Breve storia di un ‘passatore’: Rino Maccagnini – a cura di Bernardo Pastori

Parliamo di un ‘passatore’, contrabbandiere come tutti gli altri, di cui però nessuno ha mai raccontato. Avendolo conosciuto molto bene, pur essendo bambino, mi permetto di scriverne attingendo a ricordi limpidi. Secondo di una famiglia di sei figli, cinque maschi e una femmina, abitava porta a porta con me. Era un personaggio un poco particolare, piuttosto ‘torvo’ -sembrava-, alto, magro, oggi potremmo dire atletico.

Di prima della guerra non conosco il suo mestiere ma posso immaginare facesse il boscaiolo come tutti gli ‘sfrosatori’. Non conosco se avesse fatto il militare, ma so per certo che dopo l’8 settembre ‘43 si arruolò volontario nella Milizia Ferroviaria, come tanti altri, per non andare al fronte o comunque per non servire la Repubblica Sociale nei paesi invasi. La realtà delle sue imprese di ‘passatore’ la conobbi da altri a guerra finita, lui non ne parlò mai, infatti capii dopo di certi sui atteggiamenti.

Prestava servizio alla Stazione Ferroviaria di Luino sulla linea Luino-Gallarate, con tanto di divisa e moschetto mod. 91. Terminava il suo incarico rientrando a Voldomino Superiore a piedi, rasentando i muri e con la faccia scura. Col tempo immaginai che si vergognasse della divisa che portava. Dopo qualche ora dal rientro, sempre verso sera, lo vedevo uscire vestito male, cappellaccio in testa, falcetto appeso alla cintola, alla boscaiola, e ai piedi i pedù, specie di pantofole fatte con gli stracci, leggere e comode.

C’era il sacrestano di Voldomino che le faceva, bastava portargli dei buoni stracci e lui li lavorava con pochi soldi. Spesso mi capitava di vedere il Rino uscire dal portone e qualche volta lo curavo, lui mi sorrideva e salutava: “Ciao toos”, ciao ragazzo. E gli rispondevo: “Ciao Tusunn, ciao ragazzone, in doa te ve?”. Risposta: “A vo là-là-lì”, gergo popolare in uso per dire ‘vado di là’, indefinito, e mi indicava verso la Tresa o la diga di Creva, così da giustificare il suo abbigliamento da boscaiolo, meno le scarpe, e condirmi via senza bugia.

Col tempo venni a sapere ed ebbi conferma che oltre a ‘lavorare’ per il don Folli, durante il tragitto in treno Laveno-Luino trovava gli ebrei, i prigionieri inglesi, polacchi, italiani che cercavano appoggio verso la Svizzera. Non so come, essendo in divisa e armato, riuscisse ad avere la loro fiducia, li organizzava e li accompagnava in Ticino. Qualcuno ha dormito anche a casa mia, che era grande e ci pensava mio padre. Al mattino non c’era più nessuno, ma sul tavolo rimanevano i piatti della minestra. Il Rino, sempre da solo, non ‘lavorava’ con nessuno, non ebbe mai problemi, non fu mai preso, non tradì mai un ‘cliente’.

Dopo la guerra con qualche indiscrezione e qualche ammissione si seppe che fu quello che portò, numericamente, più persone in Svizzera e… senza farsi pagare: aveva già uno stipendio per vivere. Poi per alcuni anni lavorò in zona, nei boschi, bracconaggio, pesci con la dinamite o bombe a mano, in ‘rampa’ presso la stazione ferroviaria di Luino dove arrivavano i treni di bestiame dall’estero e lì facevano il mercato. Poi sparì.

Nel frattempo io cominciai a viaggiare per lavoro, prima a Milano e poi nella Svizzera Tedesca, e anche le occasioni di incontro cessarono. Dopo qualche anno lo incontrai: era cambiato completamente, era diventato cittadino, si era sposato, faceva il portinaio in uno stabile, forse un condominio, e stavano bene, senza figli. Parlando capii che non era la sua vita, ma mi disse: “A la fin bisogna met giò ul cò”, metà in voldominese, metà milanese. Passarono altri anni e un giorno lo vidi a Luino, mi fermai e lo chiamai. Fu contento dell’incontro, ma lo notai molto cambiato, mi disse che era rimasto vedovo e così è ritornato. Abitava nella zona del Porto Vecchio da solo, era ben vestito e in ordine, direi anche meno rustico di come lo conobbi da ragazzo. Gli accennai di Voldomino. Forse capì che volevo parlare del passato e gentilmente mi bloccò: “Tu sé, toos, u preferì nì a Luin parchè de Vuldomen … am regordi pù nagòt, Sai ragazzo, ho preferito venire a Luino perché di Voldomino…  -pausa- non mi ricordo più niente, ciao”. La mia interpretazione: non voglio ricordare! Alcuni anni fa seppi che era morto e forse senza annunci esposti, perché non ho sentito alcuna voce che lo confermasse. Morì solo. Rino non so se fosse un abbreviativo, ma così veniva chiamato da tutti, anche in famiglia.

Frammenti – a cura di Bernardo Pastori

Alla fine della guerra, oltre all’euforia, arrivarono tante notizie, anche documentate. Non so come ma giunsero anche le foto dei campi di concentramento. Si dà il caso che la moglie del Gino Moroni, avesse un negozio dove vendeva di tutto, dal pane alle calze, dai giocattoli, al prosciutto… era un vero bazar: vi si trovavano alimentari, cartoleria, fiori… La signora Lina, così si chiamava, in una vetrinetta che dava sulla Via Campagna, poco discosto dall’attuale Circolo Acli, espose in mezzo ad altri oggetti, profumi compresi, alcune foto dei campi di concentramento. Si vedevano mucchi di cadaveri, fosse comuni, persone magre che si potevano contare le ossa… immagini impressionanti che lasciavano esterrefatta la gente non ancora a conoscenza dei lager. Ritengo che quelle foto siano state concesse al marito in quanto perseguitato dal regime per il caso don Folli.

Un episodio, forse felice, va ricordato. Quando fu arrestato don Folli con il Moroni, perquisirono anche il negozio-bazar e uno dei tedeschi, piuttosto avanti con l’età, vide una bambola, che gli piacque. La prese e chiese il costo. La Lina, con la paura che aveva, non volle soldi. Il soldato le disse più o meno così: “No, desidero pagare. Non voglio portare una bambola rubata alla mia bambina in Germania” e la pagò. Questo fatto non fu molto pubblicizzato perché l’odio verso i tedeschi era altissimo, ma accadde a Voldomino Superiore. (…)

Un altro che fu arrestato in seguito al caso don Folli, fu Renato Badi, abitante appena sotto la casa parrocchiale, con i due giardini confinanti. Non conosco le date ma ricordo che fu portato via alcuni mesi dopo, imprigionato a San Vittore e rilasciato prima degli altri. Di professione faceva il venditore di tessuti, porta a porta, ed era fratello della Maria che era operativa in parrocchia. Nubile, dirigeva anche il coro dei ragazzi e l’oratorio femminile, in altre parole aveva in mano la gestione di parecchie realtà religiose. Dell’ episodio del Renato Badi non se ne parlò più di tanto. Forse essendo vicinissimo di casa parrocchiale, lo ritenevano a conoscenza del traffico di ebrei, come il caso del Gino Moroni. Si seppe che fu torturato nelle parti intime, tant’è che camminava con fatica, anchilosato, e si dette all’alcool. Morì
giovane. (…)

A proposito dell’arresto del don Folli e del conflitto a fuoco in Piazza Piave, di recente è scomparsa Neria Bardelli, voldominese nata nel ‘24. Nel precedente racconto dell’arresto l’avevo individuata come ‘una delle ultime due figlie’, tralasciando il nome che ora credo sia corretto rivelare. Neria, quale amica di famiglia del Berzi Tullio, ricercato, andò in tram fino in Valganna sperando di incontrarlo, fatto che avvenne, e lo avvisò di scappare. Quella dei Bardelli è la stessa famiglia che la notte in cui morirono il giovane Rossi (Brigata Nera) e Aimè (componente della Lazzarini), accolse in casa un ufficiale della X Mas ferito nello scontro e medicato, e di cui non si è mai parlato. In terra al mattino rimasero le tracce di sangue dal punto del ferimento fino al retro del negozio di alimentari della ‘Paolina’, moglie del Bardelli Carlo, padre di Neria, ultimogenita della famiglia (…).

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