Luino | 1 Marzo 2020

“Come Eravamo” quando ci si dava del “Lei”

Una lunga analisi storico-culturale, con riflessioni di carattere linguistico, quella di Giorgio Roncari, partendo dal periodo pre-fascista e arrivando ai giorni nostri

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(Fonte Eco del Varesotto – articolo di Giorgio Roncari) Una volta ci si dava del “Lei”. Per la verità ci si dava addirittura del “Voi” e anch’io, nella mia infanzia, ho conosciuto gente che lo dava ai propri genitori e l’ho sentito usare tra marito e moglie, cosa che al giorno d’oggi farebbe ridere i polli.

Il “voi” si è usato per secoli, poi, quando nel Novecento cominciò a perdersi, ci pensò il regime fascista a renderlo obbligatorio abolendo il “lei”, ritenuto meno austero e un poco debosciato. Il fatto che ci avesse messo lo zampino Mussolini, fece sì che il “voi” fu quasi del tutto abbandonato, soprattutto dalle istituzioni, una volta terminata la guerra e caduto il fascismo.

Il “lei” invece continuò per alcuni decenni. Ce lo insegnavano i nostri genitori dicendoci che, alle persone più anziane d’età, bisognava rivolgersi con una certa deferenza e un “buongiorno”, e se per caso ti scappava un “ciao” c’era sempre chi ti riprendeva, offeso. Si dava del “lei” al dottore, al parroco, al quale ci si rivolgeva con un “reverendo”, al macellaio, alla lattaia, al postino. Lo si dava alla maestra che, secondo me, era cosa apprezzabile e non sarebbe male reintrodurlo così da far capire come queste povere insegnanti bistrattate, sempre pronte ad essere sbattute al centro di bufere mediatiche, avrebbero diritto di recuperare una certa autorità in questo mondo social senza più regole comportamentali, né di rispetto e nemmeno di buon senso.

È stata la generazione dei Sessantottini, la mia generazione per intenderci, a cominciare ad abbandonare il “lei”. In anni di contestazione sociale dove si voleva che tutti si fosse uguali o compagni o simili – usate il termine che meglio v’aggrada – i giovani cominciarono per abitudine a rivolgersi tra di loro col “tu”, anche se non si conoscevano. Anche con le ragazze, cosa fin allora ben poco praticata perché le differenze di sesso erano ancora molto sentite. Col passare delle primavere i Sessantottini cominciarono a pretendere dai nuovi giovani il confidenziale “tu”, “… perché il ‘lei’ mi fa sentire vecchio”.

Anche la televisione in questi ultimi decenni ci ha messo del suo alla grande e pochi sono i conduttori, gli ospiti, politi- ci compresi, e chi fa parte di quel mondo artificiale, che non si siano votati al “tu” amichevole, ostentando una familiarità che forse non esiste.

Pure l’immigrazione globale ha avuto il suo peso nel passaggio al “tu”. Infatti se il francese e il portoghese usano ancora correntemente il “voi” e il tedesco il “lei”, come in generale le lingue dell’est Europa, lo spagnolo utilizza quasi sempre il “tu” e sempre meno l’“usted”, che è un “lei” molto informale, l’inglese contempla teoricamente solo il “tu”, così come il cinese e l’arabo, che differenzia il maschile dal femminile.

E’ quindi più che naturale che ognuno, parlando in una lingua non sua, resti legato alle proprie consuetudini verbali. Con questi presupposti e considerando che l’inglese ha la presunzione di essere la lingua del mondo intero e, soprattutto, in Italia è pappagallato senza senso né ritegno, è stato facile mettere in soffitta il “lei” di rispetto a favore del più pratico e anche semplice da coniugare, “tu” confidenziale.

Però ugualmente, mi fa specie sentire persone dare con nonchalance del “tu” e del “ciao” indifferentemente a santi e fanti, a suore e nuore, ad anziani e marziani, a Papi e papy, livellando, a mio parere, al ribasso il linguaggio comune. Le stesse persone che poi si indignano davanti a parole come handicap, zingaro o cieco, o anche sordo, perché non sono più ritenute “politically correct”, politicamente corrette.

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