(a cura di Carlo Banfi) Una testimonianza della presenza a Voldomino di Vittorio Pastori compare sulla rivista annuale a cura della Comunità Montana Valli del Verbano “Terra e Gente – Appunti e storie di lago e di montagna”.
Nell’articolo “L’impegno dell’Organizzazione Scautistica Cattolica di Aiuto ai Ricercati (O.S.C.A.R.) nella Resistenza dell’Alto Varesotto” si parla di don Natale Motta, prete in Varese, che collaborava, tra gli altri, con questo gruppo di matrice scoutistica e fucina per l’espatrio di ebrei nel vicino Canton Ticino.
Per questo scopo ebbe contatti con la ‘banda Lazzarini’ che si era stanziata in una cascina della Gera appartenente a Duilio Garibaldi e moglie in seconde nozze Maria. Da Voldomino per boschi e terreni impervi si giungeva alla Tresa e al confine elvetico. Il ‘passaggio’ era affidato a contrabbandieri esperti del terreno e dei turni delle guardie confinarie.
“Don Motta nelle sue memorie dice che il capitano Lazzarini rischiò di essere giustiziato per ordine del CLNAI per l’accusa di spionaggio. Nella primavera del 1944 infatti il barone De Haag, noto come il partigiano ‘Fausto’ fu inviato nella zona del Lago Maggiore per coordinare i gruppi partigiani e per valutare la situazione del capitano Lazzarini. La condanna a morte fu evitata grazie all’intervento presso il De Haag di don Natale Motta stesso. Di questa situazione ne risentì la fiducia di don Natale Motta sulla formazione; infatti il suo diario ci informa che in seguito a questo avvenimento inviò presso la formazione Vittorio Pastori (poi don Vittorione nda), suo stretto collaboratore e persona fidatissima. Insieme a lui si aggregarono anche Francesco e Piero Oddoni, padre e figlio. Era il 1° maggio 1944” [1].
Fausto
Il Barone Riccardo De Haag, “Fausto”, nipote del proprietario dell’Hotel Plaza di Milano, sede del Comando Tedesco, apparteneva al gruppo resistenziale di Edgardo Sogno. Si suppone agente del Servizio Informazioni Militari (SIM) e dirigente nella Missione Nemo, che era a stretto contatto con l’OSS americano. Il De Haag ebbe un ruolo importante per i contatti oltre confine e il suo nome compare per caso legato all’arresto di Ferruccio Parri, poiché era presente nello stesso stabile quando avvenne il fatto[2]. Don Natale Motta trovò una sistemazione abitativa per il De Haag nel paese di Mesenzana, nei pressi di Mulino d’Anna, la fermata della tramvia Varese-Luino, a pochi chilometri dalla frontiera elvetica [3].
Vittorione
Vittorio Pastori, detto Vittorione, poi sacerdote di grande impegno missionario, lasciò la formazione l’1 agosto ‘44 per espatriare oltre confine con diversi altri. Questa ‘fuga’ è stata raccontata dal varesino Enrico Rovetti, allora tenente dell’Aeronautica, al tempo da poco aggregato alla ’banda’. In precedenza Enrico Rovetti aveva avuto l’incarico di mantenere i contatti tra il Comitato clandestino democristiano varesino e il gruppo partigiano del Luinese [4].
Una testimonianza significativa, poco conosciuta.
Enrico Rovetti, nelle sue memorie [5], racconta dell’esperienza come partigiano alle dipendenze del Lazzarini.
“Benché sconsigliato da quelli che lo tenevano nascosto, che pure correvano gravi pericoli, (Enrico Rovetti nda) decise di andare in montagna per unirsi ai partigiani. Con una giovanissima guida raggiunse una banda ai Bedeloni (Sette Termini nda) dove in una cascina diroccata vivevano venticinque partigiani fra i quali due amici Emilio (Dansi nda) e Vittorio, il futuro don Vittorione; c’era anche un russo di nome Alioscia di Bakù. Rico pensando al papà, come nome di battaglia assunse quello di Pietro.
La località era di facile accesso ed era ben in vista dalle zone circostanti. Armamento scarso e poco efficiente, nessun servizio di sorveglianza, assenza del capo, ogni tanto qualche sparatoria, borghesi che si aggiravano tra i boschi. La situazione non era facile, gli uomini molto eccitati volevano parlare col capo del quale dicevano di non fidarsi più. Di notte Rico con altri quattro scese in un paese della vallata e si incontrò per la prima e ultima volta col comandante. Cordiale accoglienza ma stupore perché scorre spumante e senza alcun timore suonano il piano pur sapendo che a qualche centinaio di metri nella mattinata si era acquartierato un reparto di guardie repubblicane. Il comandante dà carta libera a Rico di agire come meglio crede e promette che l’indomani avrebbe raggiunto il reparto, subito non può salire per un dolore ad un piede.
Il giorno dopo alcuni partigiani in perlustrazione scorgono che gruppetti di fascisti si aggirano nei dintorni. Alla sera un partigiano porta due biglietti del capo, col primo avverte che da qualche giorno è stata decisa un’azione di rastrellamento alla quale parteciperanno circa ottomila militari, carri armati ed aviazione, spiegamento di forze che viene considerato assurdo; col secondo afferma che deve incontrarsi col comandante di zona che nessuno sa chi sia: raggiungerà il reparto il giorno dopo, ordine di nascondere il materiale e prepararsi per un nuovo dislocamento.
Nella banda l’eccitazione cresce, Rico propone di spostarsi su un altro monte sul quale passa il confine svizzero così si avranno le spalle al sicuro. Alla notte sporadiche fucilate provenienti dal fondovalle. Il capo non si fa vedere, qualcuno lo accusa di essere nascosto in posto sicuro, boscaioli informano che sono arrivati altri militari che dovranno rafforzare la guardia lungo il confine. Le sentinelle della postazione numero due arrivano trafelate perché hanno sentito spari provenienti dal colle vicino. Viene chiesto il parere di ogni componente la banda, tranne quattro, gli altri vogliono riparare in Svizzera. Mancano alcuni partigiani, tra questi Elvio che verrà fucilato in ottobre presso l’ippodromo di Varese. Alla sera scendono a valle verso il fiume Tresa, dormono all’aperto nel bosco.
Al mattino avvicinamento al confine lungo il quale erano stati tagliati gli alberi per permettere migliore visibilità alle guardie. Arriva una pattuglia formata da due fascisti, un tedesco ed un cane lupo: tutti pronti a sparare, non ce ne fu bisogno perché il vento contrario impedì all’olfatto del cane di rilevare la presenza di importuni. Sopra il fiume un ponte serviva per il passaggio del tram, aveva un casello nel quale non sapevano se ci fossero sentinelle. Arrivati al limitare del bosco tirarono un sasso sui binari, non apparve nessuno ed allora giù a precipizio, passato il ponte prima sopra e poi sotto si trovarono in Svizzera. Rico sceso per primo sotto il ponte attese che tutti fossero passati, ma quando toccò a lui si vide la strada sbarrata da Vittorio che stava sollevando per il bavero Emilio caduto in acqua in una buca dell’ansa del fiume: tentò allora di passare sotto la rete di confine, ma lo zaino si impigliò, tirò il più possibile per liberarsi, i campanelli posti sulla rete cominciarono a squillare dando l’allarme, stavano arrivando le guardie di confine, per fortuna prima di essere preso riuscì a liberarsi e salire verso la salvezza.
Seduti su un prato adiacente al corpo di guardia svizzero di Fornasette attendevano che Berna desse il benestare per l’internamento; oltre il confine guardie della Repubblica sociale li osservavano in attesa di un eventuale ordine di espulsione. Rico però aveva già ottenuto assicurazione dal comando che in caso di rifiuto li avrebbero fatti rimpatriare attraverso una zona sicura. Alla sera arrivò il sospirato beneplacito ed il gruppo raggiunse a piedi Ponte Tresa. Che sorpresa passare tra gente che batteva loro le mani e su strade illuminate, mentre al di là del fiume buio pesto e tetro silenzio.
Era il primo agosto festa nazionale della Confederazione ed era più che giustificata tanta allegria tra la popolazione. Vennero alloggiati al secondo piano di una casa di fronte al confine con l’Italia, sul pavimento paglia per riposare. (…) Il giorno dopo partenza per Lugano ed alloggiati presso il locale carcere dopo che l’ufficiale che li accompagnava, da gentiluomo, aveva chiesto scusa a Rico per la provvisoria poco consona sistemazione. La cella era per sei persone con servizi separati e starci in ventuno, tra i quali uno della stazza di Vittorio, era un po’ malagevole; faceva molto caldo, in compenso i pasti erano deliziosi specie per chi veniva dall’Italia, li portavano delle suore contenuti in stoviglie di alluminio invitandoli a chiedere liberamente quello di cui avevano bisogno. Dopo altri interrogatori vennero separati per essere inviati nei campi di quarantena. Rico si staccò dai suoi ragazzi con amarezza, fece le ultime raccomandazioni”. Invitandoli a comportarsi bene fiducioso che si sarebbero presto reincontrati in Italia. Tranne Emilio e Vittorio, gli altri non li incontrò più”. (…) [6]
In seguito Rovetti e Dansi Emilio lasciarono la Confederazione per andare a combattere nell’Ossola. Ai primi di ottobre furono inviati a Varese per una missione.
“Giunsero a Varese che era già buio e piovigginava; si incamminarono per strade poco frequentate per raggiungere l’abitazione di un amico di Rico. (…) Giunti al traguardo aprì la porta il fratello dell’amico che appena li vide sbiancò in viso, li fece entrare e li informò che suo fratello e tutti i componenti clandestini del movimento erano stati arrestati da pochi giorni. Li invitò a restare per la notte, non accettarono per non mettere lui e i familiari in pericolo di gravi rappresaglie. Raggiunsero l’abitazione di un amico di Emilio; a poche centinaia di metri giacevano tre corpi di partigiani fucilati il giorno prima, tra questi Elvio, l’amico della banda di stanza ai Bedeloni”[7].
Enrico Rovetti in una lettera del novembre 1982 segnalava ad Aldo Mongodi, partigiano di Voldomino conosciuto in Val Toce e giornalista de’ “La Prealpina”, i nominativi degli “appartenenti alla banda località Bedeloni – luglio 1944”.
Risultano essere venticinque. Compare nome e cognome, data e località di nascita, residenza. “Date e nomi seguiti da punto interrogativo – scrive Rovetti nella lettera sopracitata – non sono certi”. E questi dubbi sono veramente pochi.
Ventuno passano il confine come da lui descritto. Altri li seguono giorni dopo con l’aiuto del passatore Angelo Provini di Cremenaga, di recente scomparso.
La lettera con l’elenco dei nominativi è stata trovata da Giovanni Petrotta nel “Fondo Mongodi” che si conserva presso il Liceo “Vittorio Sereni” di Luino.
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[1] S. Bodini, L’impegno dell’Organizzazione Scautistica Cattolica di Aiuto ai Ricercati (O.S.C.A.R.) nella Resistenza dell’Alto Varesotto, in Terra e Gente – Appunti e storie di lago e di montagna, 2010, p. 147.
[2] Arresto avvenuto in via *** 92, in Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo – Una spy story italiana, in dossier n. 46 de “La nuova alabarda”, Trieste 2013, p. 50.
[3] Sul De Haag, si vedano a cura di D. D. T., don Natale Motta: ribelle per amore, Memorie vol.1, 1993 Varese e Francesco Gnecchi Ruscone, Missione “Nemo”: un’operazione segreta della Resistenza militare italiana, 1944-45, Mursia, 2011 Milano.
[4] Si veda F. Giannantoni, La notte di Salò, Arterigere, Varese 2001, p. 807
[5] Enrico Rovetti, Dulocchi, l’amico delle famiglie: fiaba, realtà, morale, Tipolit Galli, Varese, 1997.
[6] Cit. Enrico Rovetti, Dulocchi, l’amico delle famiglie: fiaba, realtà, morale, Tipolit Galli, Varese, 1997 pag. 81-83
[7] Cit. Enrico Rovetti, Dulocchi, l’amico delle famiglie: fiaba, realtà, morale, Tipolit Galli, Varese, 1997 pag. 86
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