L’associazione “violeNza dOnna”, nota sul territorio della provincia di Varese per la sua attività di sensibilizzazione contro la violenza di genere, ha mandato una lettera in redazione con alcune riflessioni riguardanti questa piaga sociale che colpisce tante donne, anche nel nostro territorio, in riferimento a cosa accade quando la vittima decide di denunciare il proprio aguzzino. Ecco il testo firmato da Roberta Donati, vicepresidente dell’associazione.
L’associazione “violeNza dOnna”: “Cosa succede dopo una denuncia per violenza di genere?”. “Oggi vorrei raccontare cosa succede dopo una denuncia per violenza di genere. Vorrei partire dal presupposto che la convenzione di Istanbul, in vigore in Italia dal 2014, ha equiparato come violenze quella economica, psicologica, fisica e sessuale, perché spesso sono presenti tutte insieme. Di sicuro, però, le prime a manifestarsi sono la violenza psicologica ed economica, che a volte si evidenziano come violenza fisica e, nei casi limiti ma neanche tanti rari, di femminicidio.
Lo stato dovrebbe cautelare queste vittime per qualsiasi tipo di violenza ed aiutarle, ma invece capita spesso che dopo calvari e paure le donne siano indecise: “lo denuncio o no?”. Quando si trova il coraggio, spesso, dopo la denuncia, c’è il nulla e le denunce vengono perse o lasciate sopra lescrivanie: in parte vengono valutate dal gip e nella maggior parte dei casi viene chiesta l’archiviazione. Si parla dell 80% delle denunce fatte dove non si arriva a processo. Quelle che arrivano a processo, invece, di queste oltre i 2/3, non vengono riconosciute come violenze. Questo iter giudiziario, poi, vede passare quattro, cinque o sei anni.
Perché dietro a tutta questa sofferenza c’è il nulla? L’anno scorso l’ONU ha bacchettato l’Italia perché non fa abbastanza per la violenza di genere. Le leggi ci sono ma non vengono applicate. Spesso e volentieri in supporto alle donne che denunciano c’è una macchina che funziona molto bene: forze dell’ordine preparate, associazioni che seguono per anni le vittime, psicologi che aiutano queste ragazze e certificano la violenza, ma arrivati davanti al giudice nulla è valido e spesso non si hanno prove concrete perchè la violenza è avvenuta tra le mura domestiche. Proprio in questo senso la Convenzione di Istanbul ammonisce gli Stati a cercare ed aiutare le vittime e di supportarle in toto.
Io mi chiedo, ma se per valutare se si è adeguati come genitori, il giudice delega uno psicologo per analizzare le capacità genitoriali, perché se c’è una denuncia di violenza il giudice invece di giudicare e chiedere dati concreti, non chiede un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU) psicologico? Una donna che ha subito una qualsiasi violenza la si può valutare grazie ad un’analisi psicologica. Questo non viene fatto spesso, non vengono sentite né le associazione, né viene tenuto conto della relazione degli psicologi delle associazioni o dei centri antiviolenza. Com’è possibile questo?
Oggi per avere un giusto processo devi morire… se sei morta allora il processo viene fatto e le prove ci sono, ma solo se sei morta. Spesso però la donna vittima ha fatto numerose denunce e nessuna di queste è andata a processo. La cautela e l’aiuto imposti dalla Convenzione di Istanbul, in vigore anche in Italia per far sì che si prevenga e si sostengano le vittime, oggi non esiste, soprattutto quando si arriva davanti alla giustizia. Allora mi chiedo a cosa serve denunciare e rischiare la vita? A cosa serve chiedere aiuto e supporto ad associazioni e psicologi, forze dell’ordine e avvocati preparati sulla violenza, se poi tutto va a finire in nulla?”.
Si chiude così la lettera dell’associazione “violeNza dOnna”, firmata da Roberta Donati.
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