Aggressivo, geloso e tormentato dalla cocaina, per la quale era facile accantonare i doveri della convivenza e sparire, anche per giorni, tra aperitivi e serate.
Il profilo è quello del 29enne a processo per il tentato omicidio di Cittiglio dello scorso 10 marzo, e a tratteggiarlo in una richiesta di ammonimento presentata al questore, e poi ritirata, prima dei tragici fatti avvenuti in Valcuvia, è la compagna del giovane. La stessa che davanti ai giudici del Tribunale di Varese, per allontanare l’idea che l’ex convivente avesse un’indole violenta già prima della vicenda che lo ha portato in carcere, ha cercato di ridimensionare il tutto.
«C’erano delle discussioni, ma non è mai stato violento con me – ha affermato da testimone in aula – Quando mi sono rivolta ai carabinieri per segnalare il suo comportamento ero solo arrabbiata, perché per l’ennesima volta era stato via di notte e non era rientrato».
La colpa era della cocaina, stando alle parole della testimone. E sempre all’uso di droga sarebbe collegata l’aggressione della mattina del 10 marzo di quest’anno, quando il ragazzo saltò addosso alla donna che lo stava ospitando – una sorta di zia acquisita – cercando di soffocarla con uno strofinaccio imbevuto di ammoniaca, mentre la donna si trovava ancora a letto. Una specie di raptus – disse l’odierno imputato dopo l’arresto – scattato dopo una nottata passata a stordirsi con droga e alcol. Raptus durante il quale il 29enne avrebbe scambiato quella donna per la compagna, con cui viveva un rapporto di continui alti e bassi.
Usciva e non tornava. Si perdeva nel vortice della coca, ha confermato sempre in udienza la suocera dell’imputato, che per prima aveva suggerito alla figlia di dire basta, dopo l’ennesimo litigio. Il 29enne aveva quindi raccolto le sue cose per lasciare casa e trasferirsi ancora una volta dalla persona che è oggi parte civile nel processo a suo carico, e che la mattina dell’aggressione riuscì a liberarsi scaraventando a terra il 29enne e mettendosi subito dopo in contatto con la vicina di casa, per cercare aiuto.
Vicina che in quell’appartamento, ancora oggi, fatica a mettere piede. Lo ha detto lei stessa, specificando che la mattina del 10 marzo la porta di casa della 40enne era stata chiusa con il chiavistello, e dentro c’era odore di ammoniaca. Parole con cui si è esaurita la seconda udienza di testimonianze davanti ai giudici del collegio, dove nel corso del dibattimento ci sarà spazio anche per l’esame dell’imputato, che nel frattempo resta detenuto in carcere a Varese. Le due richieste per ottenere i domiciliari, presentate dai suoi legali – gli avvocati Corrado Viazzo e Valentina Commisso – dopo il parere favorevole di pm e parte civile, sono state entrambe respinte dal tribunale.
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