Luino | 19 Settembre 2019

Luino, “Da dieci anni lotto quotidianamente, Andrea siamo tutti con te”

Una lunga testimonianza quella di Cristina Croci, che racconta la "bestia" con la quale combatte dal 2010, per dar forza al giovane luinese

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Trovare la forza di raccontare sé stessi nelle proprie debolezze e intimamente non è facile, soprattutto quando si vivono momenti difficili che mettono a rischio la propria vita e che portano dolore e sofferenza non solo alla persona che vive questo turbinio di emozioni, ma anche a tutti i propri cari.

Questo è il caso di Cristina Croci che nel 2010, mentre faceva la doccia, ha scoperto di avere un nodulino al seno e da quel momento la sua vita è cambiata per sempre. La voglia di lasciarsi andare ad una lunga testimonianza c’era già da tempo, almeno da due anni, quando ci aveva contattato la prima volta, ma non è stato facile organizzare i pensieri e non farsi coinvolgere emotivamente da un’esperienza che sono tanti a provare, purtroppo, qualcuno fortunato che riesce a superarlo, il cancro, e altri che invece non hanno questa possibilità.

Cristina come tanti luinesi sta seguendo Andrea Rossi, il giovane 26enne che qualche settimana fa ha reso nota la sua malattia, lanciando una raccolta fondi online, arrivata ormai ad oltre 122mila euro, che gli servirà per affrontare cure specifiche in Israele, dove si è recato per affrontare i primi esami e nelle prossime settimane iniziare a sottoporsi a cicli di una terapia particolare, la TIL (Infiltrating Lymphocyte Tumor), che ha grandi probabilità di guarigione.

E proprio dal dare sostegno ad Andrea che Cristina Croci ha inviato questa lunga lettera, nella quale racconta tutta la sua storia.

Non è mai facile iniziare a raccontare una storia che parla di vita e morte, di un equilibrio che spezza la quotidianità e che rende l’animo fragile con sé stessi, mettendo a dura prova la propria forza di volontà e il rapporto con i propri cari. Questa è la mia storia, sono una luinese che da dieci anni combatte con una delle paure più terribili al mondo, quella di morire.

Tanti momenti di sconforto e depressione, i pianti e i giorni in cui la solitudine sembrava l’unica amica, alla quale si è sostituita la gioia di rinascere, la vita, l’amore e l’affetto della famiglia e degli amici, nel momento in cui ho avuto la certezza di aver sconfitto uno tra i più grandi mali dei nostri tempi.

Ma partiamo dall’inizio, da nove anni fa, nel marzo 2010, nel momento in cui sono entrata in doccia, una cosa che amo fare con calma sin da quando ero piccola, facendomi cullare dall’acqua bollente.

Quella sera dovevo fare in fretta, mia sorella di lì a poco sarebbe arrivata a casa per cenare insieme, non avevo tempo da perdere e dovevo aiutare mia mamma. Mi sono spogliata, ho lanciato i vestiti in lavatrice e senza pensarci mi sono buttata in doccia. E’ stato un attimo. Ho aperto l’acqua, il tempo che si riscaldasse ed arrivasse a temperatura. Shampoo e balsamo, in rapida successione. E’ stato il sapone a fregarmi, a farmi scoprire quello che mai avrei voluto scoprire. Arrivando sul seno sento qualcosa di strano. Di diverso. Lo tocco e mi fermo. Non so cosa pensare. E’ un nodulo al seno? Una ciste? D’impatto non capisco. Forse non voglio capire.

Da qui ha preso il via il mio calvario, fatto di anni di sofferenza, di dolore, pianti, ricadute e, fortunatamente, di grandi, immense, straordinarie… rinascite.

Ho chiamato mia sorella, ci siamo spaventate entrambe, non avevo la benché minima idea di cosa avrei dovuto affrontare. L’ho scoperto pian piano, con il tempo. Ho sempre fatto regolari visite ma è successo ugualmente. Così ho iniziato a sottopormi ad accertamenti e esami grazie a due miei amici dottori che mi hanno seguito, insieme ad una psicologa alla quale mi ero rivolta anni prima dopo una delusione d’amore.

Avevo bisogno di aiuto, e da allora mi sono rivolta a lei. Avevo una grande paura di morire, e da così piano piano si è instaurato un bellissimo rapporto di amicizia che esiste ancora. Dopo un weekend da incubo il lunedì sono arrivata in studio per l’ecografia, il cuore mi batteva all’impazzata con mia sorella che mi teneva per mano.. L’ecografia la effettuavo ogni sei mesi, avrei dovuta farla il mese successiva.

Riscontrato il nodulino al seno, sono partiti tutti gli approfondimenti del caso. Sono scappata in macchina, mentre mia sorella pagava la visita, e la prima cosa che ho fatto è stato chiamare una mia amica, Carmen, che era stata operata tre volte a causa di un tumore. Durante tutte le prime visite, TAC, risonanza, mammografia e anche gli esami del caso, non ho mai versato una lacrima. Ero pietrificata.

Giravo di ospedale in ospedale, l’attesa è stata la cosa più brutta. Dopo la morte penso sia la parola che odio di più. Oltre a questo termine, ricordo anche un’altra definizione che avevano dato al mio tumore, “Il più bello tra i brutti. Cristina sei fortunata”. In quel momento per me non lo era.

Qualche giorno dopo ho preso appuntamento allo IEO, l’Istituto Europeo Oncologico di Milano, dove dopo un consulto mi hanno confermato che il tumore ero maligno. Sono state tante le cose che mi hanno detto, tante quelle che ho provato, tanti i pensieri, nonostante ancora dovessero arrivare tutti gli esiti nel dettaglio.

Successivamente, mi sono affidata ad una dottoressa ticinese, però, conosciuta da mia cognata, la dottoressa Pagani, che a sua volta mi ha messo nelle mani di un altro medico specialista, il dottor Alberto Costa. Sono andata a Castellanza con mia mamma e mia sorella, che non mi hanno mai abbandonata in tutto il percorso.

Il dottor Costa mi ha fatto subito sentire a casa. Ricordo un tavolone gigante e il suo affetto, nonostante non mi avesse mai visto. Mi sono sentita in un ambiente ovattato, caldo. Lui dopo aver visto le carte e gli esami mi ha detto “Sì, il problema c’è e va risolto, vedrai che tutto andrà bene”. Io stavo male, ma in quel momento mi sono sentita bene, e pensavo che quello fosse il dottore che avrebbe fatto per me. C’era una brutta bestia da eliminare, era grossa, e così il medico ha optato per la mastectomia. Mi ero già informata, sapevo di cosa si trattava.

Si è rivolto a me parlando come una figlia, sapevo che era necessaria l’operazione, ma ero consapevole di essere nelle mani che cercavo. Ringrazierò sempre il Signore per averle trovate. Non avevo mai visto o vissuto una situazione di questo genere ma ero quasi pronta ad affrontarla. Dopo l’esame istologico abbiamo riscontrato anche la necessità di asportare i linfonodi, erano compromessi.

Così arriva il giorno del pre-ricovero, ma avevo i pensieri confusi. Settimane difficili, ero convinta di morire. Nessuno mi ha mai fatto cambiare idea in quel momento. La mia famiglia era disperata. Mia mamma, mio papà, mia sorella e mio fratello erano uniti con me, sono sempre stati speciali, ma non ce l’hanno fatta a convincermi che l’intervento sarebbe andato bene. Ero pronta a tutto, ma per me il tumore rappresentava la morte.

In ogni caso, non avrei più avuto sensibilità sul seno, sotto l’ascella e sulla prima parte del braccio, che non ho ancora ora a distanza di tempo, ma mi era stato detto che c’era la possibilità di fare una protesi. Non mi fregava niente in quel momento della protesi e del mio seno, volevo soltanto sopravvivere.

Dopo l’operazione, che è durata a lungo, e mi ha fatto piangere mentre andavo via dai miei, ai quali avevo mi rendevo conto di aver dato un grande dolore, tornata in stanza dopo sette ore ero agitata ed impaurita. Ho avuto un attacco di panico, un attacco di panico davvero tremendo tanto da saltare nel letto, anche se era andato tutto bene.

Mi sono guardata il seno, l’ho visto piatto, con questa mega cicatrice. Ho tirato un sospiro di sollievo in un primo momento: certo, era diversa dall’altra, però c’era. Poco dopo, invece, ci ho pensato di più: mi avevano privato di una parte di me, una parte della mia mia femminilità… questo mi ha fatto molto male.

Dopo tre giorni e mezzo, sono andata a casa con due drenaggi, dolorante, mi faceva male davvero tutto: la sensazione era quella di avere tanti coltelli conficcati sia davanti che dietro. Un dolore che fino a quel momento nella mia vita non avevo mai sentito.

Una cosa mi è rimasta impressa di quei giorni erano i giochi con la mia nipotina Carlotta: ad esempio per lei facevo il cagnolino. Le dicevo la zia deve andare in bagno, la accompagni? E lei prendeva il sacchettino del drenaggio e mi accompagnava dicendo “Certo, sei il mio cagnolino”. Il mio pensiero fisso in quei giorni era “come farò adesso a dirle che la zia perderà i capelli?”. Era lei a pettinarmi spesso per gioco. Ho pensato che glielo avrebbe detto la sua mamma perché io avevo troppe cose in testa e non potevo sobbarcarmi anche questo macigno.

Dopo l’intervento, erano già previste trenta radioterapie, dal lunedì al venerdì, e numerosi cicli di chemio. Abbiamo fatto avanti indietro tutti i giorni da Luino a Castellanza, sempre scortata dai miei due angeli. In ospedale, ormai, mi prendevano in giro, dicendomi “Ecco Cristina, che arriva con i suoi due angeli”.

Data la mia giovane età le chemioterapie erano molto aggressive. Tra perdita di capelli e peli, è partita una nuova battaglia con me stessa. Tenevo molto a loro, da sempre li amo lunghi, mentre per i peli, con un po’ di ironia, mi dicevo che avrei risparmiato sull’estetista.. in un certo senso la mia ironia mi ha salvato, cercavo sempre di sdrammatizzare, ma avevo sempre latenti paura, terrore e dolore: queste erano le uniche parole che avevo in testa.

Ho passato davvero sei mesi tremendi con nausea, vomito, crampi allo stomaco, congiuntivite, afte in bocca ed esofagite, a causa delle radioterapie con cui mi avevano bruciato anche una parte dell’esofago. Facevo fatica a deglutire. Avevo anche blocchi intestinali fortissimi: tutto quello che c’era scritto negli effetti collaterali l’ho avuto.

Non è stato facile vedermi trasformare da ragazza normale ad una palla tremenda grigio topo. Non sono mai stata tanto amica dello specchio ma in quel periodo non mi guardavo neanche più perché… Certo gli altri mi dicevano che ero bella lo stesso, ovviamente frasi di circostanza che si dicono in questi casi. Credevo alla mia famiglia, credevo alle persone a cui voglio bene. Credevo che potevo sembrare ai loro occhi bella perché se ad una persona vuoi bene, che sia grassa o magra, pelata o con i capelli, gli vuoi bene lo stesso.

Gli amici mi hanno capito, sono stata fortunata, mentre i conoscenti faticavano. Quando uscivo mi dava un gran fastidio dover dare spiegazioni, il dover rendere conto sempre e comunque. Sorridevo sempre a chi incontravo, i pianti e la disperazione li ho vissuti solo con la mia famiglia e miei cari. Quelli li lasciavo a casa.

Non ho mai smesso di avere speranza. Dopo l’intervento il dottor Costa mi aveva detto “ce la faremo” e io in questa cosa ho voluto credere perché mi sono affidata a lui. Con tutto questo che mi risuonavano in testa mi sono detta ce la devo fare, ce la voglio fare. Piangevo tanto, la disperazione non mi ha mai abbandonato ma insieme a questo ho sentito nascere dentro di me una grande grinta. Era una speranza che si aggrappava alle piccole gioie dei piccoli traguardi quotidiani.

L’ultima chemio l’ho fatta il 9 settembre 2010 ed è ricominciato a spuntarmi qualche capello. Poi ovviamente ho dovuto fare una serie di altre cose, come il linfodrenaggio, la fisioterapia al braccio e la ginnastica. Ho sempre fatto tutto in modo scrupoloso nonostante il dolore.

Ce l’ho fatta e il 21 ottobre 2010, il giorno del compleanno di mio fratello, ho ricominciato a lavorare. Ho ripreso a lavorare in panetteria alla Coop. Prima facevo sia gastronomia che panetteria, ma viste le complicazioni date dalla malattia, in gastronomia mi era impossibile stare.

La mia forza è stata anche il lavoro, il contatto con la gente e le piccole arrabbiature di ogni giorno. In particolare, poi, l’affetto dei miei clienti affezionati è stato qualcosa che mi ha gratificato molto. Sono una persona solare, lo sono sempre stata, non ho ‘nemici’ perché se mi arrabbio con qualcuno sono abituata a risolvere subito la cosa senza portarmi dietro il rancore nel tempo. Dunque ritornare a lavorare è stato molto bello.

Il 3 dicembre sono arrivati i miei 40 anni e non me la sentivo di festeggiare. E’ vero stavo meglio, mi ero ripresa, ma non avevo alcuna voglia di celebrare il compleanno. Alla fine i miei hanno organizzato una festa a sorpresa solo per noi a casa di mia sorella, ed è stata graditissima.

Di lì a poco ho conosciuto Raffaele, il mio attuale compagno, con cui sto insieme ormai da anni. L’ho conosciuto nel 2012, quando già stavo benino. Un ragazzo buonissimo, molto dolce e anche molto particolare e bizzarro perché è un artista. Lui è una persona sportiva, molto attiva, l’opposto di me insomma.

Dopo un po’ di tempo ho ricominciato ad uscire, a fare qualche viaggetto perché mi sentivo meglio. Certo veder cambiare il mio fisico non è stato semplice: corpo diverso, nuovo seno, nuova cicatrice, nuova sensibilità. Ma credo che Raffaele si sia innamorato della mia simpatia più che del mio aspetto.

La mia guarigione sembrava andare per il verso giusto, e ho potuto festeggiare insieme a mia sorella e a mio fratello anche la nascita dei miei altri due nipotini, Filippo, Camilla e Leonardo. Loro sono stati la mia forza. Purtroppo, però, non era così e dopo qualche tempo, la “bestia” è tornata a farmi visita.

A distanza di anni, nel 2016, però, è tornato con una recidiva. Ho ripreso la trafila fatta ancora di questi odiati esami e visite. Dopo aver fatto la risonanza magnetica e la PET, un esame molto specifico che analizza il corpo in ogni minima parte, mi sono detta “Questa volta muoio. La prima volta ce l’ho fatta ma la seconda no, non credo di farcela”. Ero nuovamente disperata. Non riuscivo a darmi pace, pensavo a come sarebbe stato il mio funerale, alle cose belle che le persone avrebbero detto di me.

Un altro pensiero in quel momento è stato il dolore che avrebbe provato mia mamma, che tante volte mi ha tenuto la mano di notte quando stavo male per la chemio. Lei in quelle notti non dormiva, ma non mi ha mai detto di essere stanca, aveva una forza incredibile. Io ero convinta di non potercela fare.

Per via della recidiva ho dovuto fare ancora radioterapie: il tumore infatti aveva colpito parte delle vertebre dorsali e lombari, parte del bacino e parte dell’anca. Ho passato sere, notti, giorni senza dormire. Odiavo tutti, mi avevano detto che non sarebbe stato nulla, o forse lo speravano soltanto. E invece ancora calvario, ma fortunatamente nessun organo era stato compromesso e la si poteva gestire.

Avrei dovuto convivere con questa malattia, che fortunatamente non significa morire. Così mi sono rimessa in moto. Ho dovuto nuovamente smettere di lavorare, per forza. Controllare i dolori con nuovi e forti antidolorifici visto che le ossa mi facevano molto male più di quanto non ne avessi sentito per l’intervento. Sono dovuta rimanere immobile a letto per quasi tre mesi, non potevo alzarmi da sola, mi dovevano accompagnare ovunque, mi dovevano lavare e quando era il momento, dovevano anche caricarmi in macchina per portarmi a fare la radioterapia: un periodo davvero molto pesante. Anche in questo caso gli effetti sono stati devastanti. Sono arrivata a prendere undici pastiglie al giorno.

Anche la seconda volta ce l’ho fatta e dopo mesi di fatica eravamo riusciti a sconfiggerlo nuovamente. Non mi sembrava vero. Sono tornata alla mia quotidianità, lavorando e vivendo le mie giornate una dopo l’altra, fino a quando, nell’ottobre 2017, è ricomparsa “la bestia”, per l’ennesimo spiacevole e indesiderato incontro.

Con l’oncologa, a questo punto, abbiamo dovuto stravolgere l’intera terapia, cercando di trovare i risultati e i riscontri tanto desiderati. Cosa che è avvenuta dopo alcuni mesi difficili.

Ancor oggi, però, che ho ripreso a lavorare alla Coop ma come cassiera, ho degli alti e bassi, è una ferita ancora aperta, ci sono giorni che piango, altri in cui va un po’ meglio, ma ho imparato a convivere con la mia “bestia”, non potendo farne a meno. Ho scelto di combattere e di non mollare mai. Mi sarebbe potuta andare peggio.

Continuo a fare i controlli e qualsiasi tipo di visita ed esame possibile e immaginabile, alcuni con cadenza semestrale, altri annuale, con addosso una paura costante per ogni singolo esito. Il dolore si affievolisce, ma non passa mai. È lì che mi guarda costantemente, ogni mattina: rimane quella cicatrice che ogni tanto sanguina. Quindi ho momenti bui, ho momenti di tristezza, ho momenti di rabbia nei quali mi chiedo perché ho dovuto affrontare questa sofferenza. Non c’è risposta a questa domanda, seguo solo il mio destino.

Ho scritto questa lettera, dopo aver letto la storia di Andrea Rossi, che ha mobilitato l’intera comunità di Luino in questi giorni. Ho voluto raccontare una storia atrocemente bella, che magari può essere di aiuto non solo a lui ma a quelli che come me hanno dovuto convivere con il cancro. Nel mio piccolo cerco di supportare e stare vicino alle persone che conosco e si sono ammalate come me.

Essere ancora qua e raccontare la mia testimonianza è un dono fantastico, che ho potuto scartare grazie alla vicinanza della mia famiglia, dei dottori e delle persone che mi hanno sempre sostenuta, stando sempre al mio fianco in punta di piedi. Lo stesso affetto l’ho visto sabato a Germignaga, per l’iniziativa organizzata in favore di Andrea, al quale auguro che tutti i suoi sogni possano diventare realtà. Come è stato per me fino ad oggi.

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