Alto Varesotto | 9 Ottobre 2017

Oltre l’odio e il razzismo: storie di lealtà dei migranti del nostro territorio

Piccoli ma grandi episodi, che ci dicono quali muri abbiamo costruito con questi ragazzi e quanta diffidenza siamo riusciti a suscitare in loro

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(Cesi Colli) Storie, forse piccole storie, ma che forse possono invitarci a riflettere: questa storia ci racconta di un ragazzo, Suleman, un nero che viene da lontano, che ha attraversato il deserto, il mare, poi è stato caricato su un pullman ed è arrivato qui, al Pradaccio di Laveno, ospite della cooperativa Agrisol, braccio operativo della Caritas comasca. E’ un tipo silenzioso e molto introverso, Suleman, ma è anche quello che ha un forte ascendente sui suoi compagni: è corretto, umile, molto serio nel mantenere i dettami del proprio credo e nell’aiutare gli altri ragazzi a rispettarli, perchè, lontani da casa e proiettati per urgenza in un mondo così diverso dal loro, rischiano di smarrire la bussola e frammentare dei pezzi importanti della loro identità.

Il suo tempo, in attesa di capire quale piega prenderà il suo futuro, trascorre tra frequenza alla scuola media del CPIA, impegno nelle attività quotidiane in struttura (pulire, cucinare…), partite a pallone con i compagni, una passeggiata ogni tanto a Laveno o sulla ciclabile. Ed è in una di queste camminate che vede per terra un cellulare, nuovo, senza dubbio costoso. Che cosa fa? Forse noi potremmo pensare male perché, secondo un certo qualunquismo, i neri sono tutti ladri e stupratori… Questo ragazzo, invece, si rivolge alla sua educatrice, Carlotta. Non se la sente di recarsi dai carabinieri: non lo vorrebbe fare né da solo né con l’educatrice che affianca i ragazzi in struttura. Perché? Questi ragazzi hanno paura, paura di essere giudicati, paura di essere fraintesi, paura di essere colpevolizzati. Carlotta sa che il suo compito è di accompagnare, non di sostituirsi. Vanno così dai carabinieri insieme, perché il ragazzo impari a spendersi in prima persona, a muoversi sul nostro territorio e stabilire un rapporto corretto e di fiducia con le istituzioni.

Anche Mohamed, un altro ragazzo, ha ritrovato un giorno un portafoglio a Milano. C’erano soldi, carta di credito, tessera universitaria e altri tesserini. Non c’era, però, indirizzo. E’ sempre la paura e la sfiducia che lo ha mosso: è salito sul treno ed è ritornato a Caravate, a Villa Letizia. Il copione si ripete: anche lui va dall’educatrice, che gli farà da stampella e lo condurrà dai carabinieri. Non ha pensato Mohamed che se sul treno lo avessero trovato con quel portafoglio, avrebbe avuto dei guai giudiziari infiniti: come avrebbe potuto dimostrare che lo voleva riconsegnare alla polizia? Purtroppo ha avuto paura di farlo da solo e non ha pensato a quali grossi inconvenienti avrebbe potuto incorrere… Cercava solo l’aiuto e l’appoggio di qualcuno che gli facilitasse la strada.

Piccoli episodi, ma che ci dicono quali muri abbiamo costruito con questi ragazzi e quanta diffidenza siamo riusciti a suscitare in loro. Non c’è ragionamento razionale, né logica, né buon senso che possano intaccare la loro fabbrica della paura, ma solo un’accoglienza aperta e sincera: è indispensabile fare crescere un dialogo adulto e fraterno tra noi e loro, dare loro un’informazione onesta e capillare sul nostro modo di vivere, che non è fatto solo di persone che li rifiutano e li respingono. Potremmo, infatti, rimanere molto stupiti, conversando del più e del meno con ragazzi da pochi mesi sul nostro territorio, che tanto faticano per imparare a stare in piedi, nel sentirli richiamare valori umani e sociali importanti, utilizzando in modo ineccepibile termini della nostra lingua italiana che spesso noi, nel nostro parlare quotidiano, omettiamo, quali “denigrare, offendere, xenofobia, razzismo”…, che esprimono situazioni che vivono sulla loro pelle.

Non bisogna limitarsi solo alla pur doverosa accoglienza del “vestire gli ignudi, dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati”, ma occorre puntare all’integrazione, nel rispetto della loro dignità di uomini. Chi si apre ad altre culture ha solo da guadagnarci. Questa è sempre stata la storia dell’Europa, che «si è formata con una continua integrazione di culture», come ha ricordato Papa Francesco.

L’Europa non è chiamata a perdere la propria identità, ma ad arricchirla nello scambio con altri popoli. Proviamo a rovesciare il ragionamento, considerando gli immigrati non un problema, ma una risorsa, non persone da respingere, ma persone che hanno energie e ci pongono domande fondamentali per cambiare una società e un paese che ci ha deluso e non sembra più fatto né per i vecchi, né per i giovani, né per le donne, né tantomeno per chi lavora.

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Una risposta a “Oltre l’odio e il razzismo: storie di lealtà dei migranti del nostro territorio”

  1. piero ha detto:

    risorse??? maaaaaa!!!

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