Mentre i canali diplomatici tradizionali svizzeri cercano ancora febbrilmente soluzioni per migliorare l’offerta svizzera a Washington, nel tentativo di abbassare i dazi supplementari imposti al 39% dagli Stati Uniti, vi sono osservatori molto più locali che seguono con apprensione quanto sta accadendo alla Svizzera. Si tratta dei sindaci delle aree di frontiera.
Considerato che la soluzione di questo problema è fondamentalmente nelle mani di Donald Trump, i primi cittadini di Lombardia e Piemonte sono particolarmente attenti ad ogni “piano B”, considerato che nel solo Ticino lavorano circa 77.000 italiani. Le sfumature delle loro dichiarazioni sono diverse, di fondo però esprimono tutti preoccupazione per le possibili ricadute. L’economia di questa macroarea, quella insubrica per intenderci, non conosce confini.
Massimo Mastromarino, sindaco di Lavena Ponte Tresa e presidente dell’Associazione Comuni italiani di frontiera (ACIF), invita tuttavia ad attendere ancora un po’, perché – come già visto in altre circostanze con altri Paesi – possono esserci cambiamenti. Si spinge in là il primo cittadino, chiedendo alla politica regionale e italiana – anche in virtù di quanto sta accadendo oltre frontiera – di togliere la cosiddetta tassa sulla salute in un momento storico come questo.
Anche Enrico Bianchi, sindaco di Luino, ritiene che vi sia ancora grande incertezza in questo momento e chiede di non fgare allarmismo inutile, mostrando attenzione a quelli che saranno i settori più colpiti e, se del caso, capire come agire.
Da Porto Ceresio Marco Prestifilippo, sindaco molto attivo nell’area di frontiera – dopo aver ribadito che nulla possono i Comuni italiani contro a provvedimenti di queste proporzioni mondiali – racconta gli sforzi fatti per far diventare il turismo un motore attrattivo, quindi un’economia parallela, come la definisce lui, quasi come il frontalierato, per resistere appunto a decisioni che volano sopra le teste di tutti.
Il sindaco di Germignaga Marco Fazio definisce insensate queste tariffe, sottolineando come alcune si fossero già preparate. Poche, per la verità, non è un caso esteso, precisa, e rimane quindi alta la preoccupazione per un settore dove nessun potere locale poi può davvero fare nulla.
Fin qui i commenti di chi da tempo conosce le dinamiche del mondo del lavoro nella Confederazione in qualità di amministratore. Difficile è anche pensare che aziende svizzere possano trasferirsi in Italia, magari nel varesotto o comasco, con il proprio marchio, perché perderebbero lo “Swiss made”, soprattutto in settori dove questo è sinonimo di altissimi standard qualitativi.
Senza contare il problema infrastrutturale e burocratico, quello che ha spinto proprio molte aziende della frontiera a lasciare la Lombardia e proprio le aree di Varesotto e comasco per il Canton Ticino. (foto Servizi del Parlamento, 3003 Berna / Rob Lewis)
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