Luino | 8 Luglio 2025

Un luinese a San Siro per Bruce Springsteen: «Il tempo del Boss, il tempo di tutti noi»

«A San Siro non un concerto, ma un rito laico: Springsteen emoziona, unisce generazioni e accende ricordi, in un abbraccio collettivo dove il rock diventa memoria, speranza e resistenza»

Tempo medio di lettura: 2 minuti

(a cura di Matteo Toson) C’è un prima e un dopo. Sempre. Ma quando c’è Bruce Springsteen, il tempo si piega, si ferma, si dilata. E a San Siro, per la prima delle due date milanesi, il 30 giugno, è andata esattamente così: non un semplice concerto, ma un pellegrinaggio laico, collettivo, generazionale.

Quarant’anni dopo.

Era il 1985 quando il Boss calcava per la prima volta il prato di San Siro. Da allora, tutto è cambiato. Tutto, tranne una cosa: lui. Bruce. La sua voce, la sua schiena, il suo pugno alzato, il suo modo di dire al mondo “ci sono ancora, e voi con me”. A 75 anni suonati, è salito su quel palco come un generale che ha attraversato mille battaglie, ma che non ha mai smesso di credere nei suoi uomini.

E noi c’eravamo. Io, il Pando, Lauretta, e migliaia di altri figli di quel rock sincero, ruvido, salvifico. Non ci servivano effetti speciali, bastava lui. Bastava la voce che ha scavalcato le note, il tempo, le rughe. Bastava l’abbraccio della E Street Band, come una famiglia che si ritrova ogni volta sapendo che potrebbe essere l’ultima, ma facendola sembrare la prima.

“No retreat, baby, no surrender”.

Lo ha cantato. Lo abbiamo cantato. Ma soprattutto lo abbiamo vissuto. Springsteen non fa spettacolo: dà testamento. Ogni parola è un passaggio di consegne, ogni assolo è una dichiarazione d’amore, ogni silenzio è un patto tra sopravvissuti. Perché sì, siamo sopravvissuti. A pandemie, guerre, disillusioni, cambiamenti climatici, social network e mediocrità.

Ma non ci siamo arresi.

E questa volta, più che mai, si percepiva un’aria solenne. Come se Bruce ci stesse dicendo: “Ragazzi, siamo arrivati fin qui. Non era scontato. Ma ci siamo. E questo conta”. Nessun autocompiacimento, nessuna nostalgia sterile. Solo consapevolezza. E uno sguardo dritto negli occhi di chi c’era: “Ve lo ricordate il sogno? È ancora nostro”.

Un atto d’amore collettivo.

Tra chi stava sotto il palco, chi urlava dal terzo anello, chi piangeva, chi sorrideva pensando a chi non c’è più. È stato tutto perfetto perché imperfetto, umano, vero. Bruce ha cantato anche per loro, per chi se n’è andato e ci ha insegnato a non mollare. Per chi ci ha passato una canzone come si passa una torcia in mezzo al buio.

E allora sì, è vero: ho visto tanti concerti. In tanti stadi. In momenti diversi della mia vita. Ma questo, questo era altro. Era una stretta di mani in un mondo che ti spinge a mollare. Era un urlo nella notte: “I was born to run, and I still do”.

Lunga vita al Boss. Lunga vita al rock.

Perché finché ci sarà qualcuno che si metterà in fila per gridare Badlands sotto il cielo d’Italia, finché ci sarà una chitarra accesa contro il silenzio, finché ci sarà un palco e una voce che ti ricorda chi sei, allora non saremo mai soli.

See you again, Bruce. See you in the dream.

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