Cuveglio | 14 Aprile 2021

“Come eravamo”, quando si parlava italiano

Ormai come ti giri è tutto un pappagallare, un fare il verso all’inglese diventato imperante e impertinente. Riflessione sull'uso e sull'abuso di anglicismi

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(A cura di Giorgio Roncari) Sono indignato! Come italiano sono indignato e arrabbiato per non riuscire ad ascoltare tivù e radio, leggere un articolo di giornale o un pezzo on line senza imbattermi in qualche vocabolo inglese gratuito che a volte mi confonde il senso del discorso.

Sarei irritato ugualmente se sapessi l’inglese perché non trovo giusto questo selvaggio uso di anglicismi, questo vergognoso provincialismo nei confronti di una lingua straniera.

Ormai come ti giri, nelle città e in ogni luogo, dalle stazioni, alle autostrade, dai ristoranti, ai centri commerciali, dagli ospedali alle fiere, è tutto un pappagallare, un fare il verso all’inglese diventato imperante e impertinente. È per favorire il turismo straniero, ha sentenziato qualche cervellone con più neuroni. In parte potrebbe anche essere vero, del resto anche in Spagna, Germania, Francia gli avvisi nei luoghi rilevanti li mettono in quattro lingue, anche se mai in italiano.

Ma cosa centra col turismo estero dover compilare un modulo in lingua inglese per potersi iscrivere, come successo non tanto tempo fa a non ricordo più quale università oppure, come capitato a me, riempire un formulario per una casa di riposo o uno stampato in qualche ufficio pubblico e rimanere in dubbio davanti a un termine inglese.

Altri popoli non usano molte parole straniere, per esempio i francesi, non dicono computer ma ‘ordinateur’, neppure mouse, ma ‘souris’, e nemmeno Bed&Breakfast ma ‘gitè’. Ammettiamo pure che i francesi, che hanno una legge che preserva la loro lingua, siano alquanto sciovinisti, noi però di questo andazzo arriveremo a parlare una lingua che non sarà più italiano e non ci aiuterà certo con i turisti, né quando saremo all’estero.

Chi ha dato il via a questa tendenza anglofila di dubbio gusto? Innanzitutto i mass media, poi i manager e i politici, tre categorie traino, tre caste privilegiate più a contatto con la globalizzazione che vogliono ostentare la loro superiorità. Il ridicolo è che molti si sono sentiti in dovere di seguire questa moda perché fa trend, tendenza, primi fra tutti gli influencer e youtuber dei vari siti social, col risultato che tanti non addetti ai lavori, operai, ceto medio, anziani, ma anche i giovani, si trovano a usare termini di cui non conoscono il significato.

Vai sull’autostrada e ti consigliano il carpooling, vedi un film e citano cast e location. In tivù reporter sportivi intervistano coach, lanciano highlights e discutono di offside e di var; anchormen propongono best seller, promettono scoop, denunciano gossip, presentano show girls, registrano lo share. Per non parlare delle pubblicità, soprattutto di auto, che lanciano prodotti solo con aggettivi inglesi e bisogna vederle più volte per intuire i vari optional reclamizzati. Una volta stavo entrando in una pizzeria ma quando ho letto l’insegna ‘I’m your pizza’; ho cambiato locale. Almeno che le italiche pizzerie abbiano nomi nostrani.

E che dire della genialata di battezzare impropriamente un dicastero “Ministero del Welfare” che letteralmente significa ‘benessere’, parola più adatta e soprattutto comprensibile. Per non parlare dello slogan della marina militare italiana: “Be cool and join the navy”, che tradotto significa “sii figo e arruolati in Marina”. Un’acutezza, come se dovessero arruolare inglesi e americani.

In ogni ambiente senti gente che parla con accento più o meno maccheronico di brand, badge, gossip, tycoon, shopping, briefing, parking, selfie, flat tax, jobs act, free vax, class action, fashion week, red carpet, fiction, staff, score, cult, spread, escort, bodyguard, toy boy, yes we can e chi più ne ricorda più ne metta, termini che ci hanno confuso la testa e, lasciatemelo dire, rotto le scatole.

È vero che parole straniere ne sono sempre arrivate, del resto ogni lingua è in movimento, ogni idioma è un divenire. All’inizio del Novecento erano abbastanza comuni i francesismi e leggendo i giornali di allora potevi trovare qua e là termini come ‘chapeau’, ‘bouvette’, ‘foyer’. Ma ora in questo nuovo millennio mi pare si sia sbracato alquanto e la nostra lingua, di questo passo, tra poco sarà un idioma che non ci apparterrà più, ed è un peccato perché la lingua di un paese riflette la sua cultura e la sua storia, serve per esprimersi in modo uguale, per capirsi tutti.

È stato calcolato che dal 2000 le parole inglesi usate nell’italiano scritto siano aumentate del 775%, un’enormità, accentuata ancor più dal Covid che ha sdoganato inglesismi a go go, per cui è stato seriamente ipotizzato che a fine secolo l’italiano possa non esistere più.

Bisogna che qualcuno si renda conto di questa deriva del nostro linguaggio e se ne faccia carico, prendendo provvedimenti prima di arrivare al punto di non capirci tra italiani. Non si dice certo fare come in epoca fascista quando, nella mania di ‘recuperare la purezza dell’idioma patrio’ si arrivò a coniare termini ridicoli come arzente per cognac, cialdino per cachet, pranzoalsole per picnic, o ancora arlecchino per cocktail, termini che del resto nessuno usò. Caduto il regime fascista, per distinguersi da questo nazionalismo linguistico, i padri della Costituzione, pur tutelando le lingue minoritarie, hanno preferito di proposito non inserire nessuna regola a salvaguardia dell’italiano.

L’ultima trovata è stata quella di alcune vip femministe che si son dette offese dal ‘catcalling’, perfettamente lecito, ma se ci dicevano semplicemente che erano i fischi ad una bella donna, forse capivamo meglio e ci adeguavamo prima.

Ora pare che qualche intellettuale si stia agitando e anche l’Accademia della Crusca abbia sollevato dubbi. Speriamo si muova anche la Società Dante Alighieri e che qualche politico chieda una modifica all’articolo 6 della Costituzione, quello che protegge le lingue minoritarie, ma ha dimenticato l’italiano. Non sarà certo facile perché toccare la Costituzione richiede procedure lunghe e complesse e voti favorevoli con percentuali bulgare, ma soprattutto perché abbiamo la netta impressione che i politici usino l’inglese come una sorta di gioco di prestigio linguistico per nascondere l’inconsistenza delle idee.

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