Agra | 10 Settembre 2017

L’Africa al centro della serata benefica organizzata ad Agra dagli “Amici di Nzong”

Aiutare l’Africa ad uscire da uno stato di immeritata povertà: questa la finalità dell'associazione, che invita tutti a prendere parte all'iniziativa di sabato

Sabato una tombolata benefica organizzata dall'associazione
Tempo medio di lettura: 5 minuti

(Un articolo di Emilio Rossi)

Aiutiamo l’Africa ad uscire da uno stato di immeritata povertà. Questo lo slogan dell’associazione “Gli Amici di Nzong” che, grazie alla generosità di molte persone, è riuscita a realizzare in un villaggio del Camerun, pozzi d’acqua e una scuola materna. Anche sabato, 16 settembre, alle ore 20, presso la struttura della Pro Loco di Agra, verrà organizzata una Pizzoccherata benefica, il cui ricavato servirà a supportare le spese di funzionamento della nuova scuola materna, in grado di ospitare più di cento alunni.

Quello che daremo noi occidentali all’Africa non potrà mai compensare l’immane scempio da noi compiuto a partire dalla tratta degli schiavi fra il XVI e il XIX secolo. Le stime più credibili parlano di un numero di persone che va dai venti ai cento milioni tra quelle giunte in America, quelle uccise nel corso della guerra di cattura e quelle morte durante il Middle passage. Un black holocaust che pesa sulla coscienza dell’Occidente come un macigno. Ne prenda nota la schiera crescente di neo-razzisti che vorrebbe relegare i disperati che approdano alle nostre coste in un immenso campo di concentramento e perpetuare la condizione di una immeritata povertà. I nostri padri hanno sconsideratamente firmato una cambiale che tocca purtroppo a noi saldare. E se continueremo di questo passo, non potremo più contenere la rabbia di masse smisurate di disperati che finiranno per rendere impossibile la vita nelle nostre città. Che dire poi della colonizzazione selvaggia del continente africano? Territori conquistati con la violenza più efferata per sfruttarne le materie prime a scapito delle popolazioni indigene, ritenute di razza inferiore. Anche noi Italiani «brava gente» non fummo immuni da questa frenesia che caratterizzo la politica degli stati europei negli ultimi tre secoli.

Non furono gli Africani ad invadere i nostri territori, ma fummo noi ad invadere i loro. Una conquista che non fu indolore. Tra i tanti massacri perpetrati dagli Italiani in Etiopia durante il fascismo, ad esempio, di particolare efferatezza sono quelli compiuti nel 1937 dopo il fallito attentato al viceré Rodolfo Graziani ad Addis Abeba. La furibonda rappresaglia delle truppe italiane costò la vita a migliaia di persone, passate per le armi su ordine diretto di Mussolini. La repressione toccò indistintamente semplici indigeni ed esponenti del clero copto, in un bagno di sangue che assunse la ferocia del pogrom, un genocidio, una sistematica distruzione di una popolazione, di una stirpe, di una razza o di una comunità religiosa. Così racconta quei drammatici momenti il giornalista Ciro Poggiali. La vendetta fu condotta coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. “Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vengono fatti arresti in massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge. In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente”. Gli ordini di Roma sono tassativi: in Italia però si deve ignorare.

Ed ecco la testimonianza del prof. Harold J. Marcus, professore di Storia e di Studi Africani alla State University, autore di una storia dell’Etiopia: “Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli Etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte”.

Fonti etiopi parlano di 30.000 vittime, fra 3.000 e 6.000 secondo la stampa straniera del tempo. Tra marzo e novembre ben 400 abissini, tra cui importanti personaggi pubblici, vengono imprigionati e deportati in Italia con cinque piroscafi. Intere famiglie con donne e bambini sono confinate nel campo di concentramento di Danane, sulla costa somala, dopo aver sostenuto un lungo viaggio di 15 giorni con morti per stenti e malattie come vaiolo e dissenteria. Secondo la testimonianza di Micael Tesemma, riportata da Angelo Del Boca, il quale trascorre nel campo tre anni e mezzo, su 6.500 internati ben 3.175 perdono la vita per scarsa alimentazione, acqua inquinata e malattie. Lo stesso direttore sanitario del campo, riferisce il testimone, avrebbe accelerato la fine di alcuni internati con iniezioni di arsenico e stricnina. Le esecuzioni proseguono anche a marzo e Graziani ordina la fucilazione di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L’iniziativa è approvata da Mussolini. Sempre Ciro Poggiali racconta l’episodio di un capitano italiano che, dopo aver fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena, di fronte alle proteste del capofamiglia “uccide tutta la famiglia compresi i bambini”.

La violenza Fascista in Libia. La Libia era formalmente una colonia, ma l’autorità italiana era limitata ai principali centri urbani della costa; il resto del Paese era in mano a gruppi ribelli. Per stroncare la ribellione, tra il 1930 e il 1931 l’intera popolazione della Cirenaica fu deportata in campi di concentramento. Spiega Matteo Dominioni, affermato storico e ricercatore, autore del libro “Lo sfascio dell’impero”: “In Cirenaica agivano gruppi di partigiani che attuavano tecniche di guerriglia. Lo stesso era avvenuto anche in Tripolitania, in una fase precedente, e lì la resistenza era stata stroncata con l’uso dell’aeronautica. In Cirenaica però era molto più difficile. Così nel 1930, Badoglio ordinò di deportare tutta la popolazione”. Furono pertanto creati 13 campi di concentramento nel deserto. In parallelo, l’esercito italiano utilizzò stragi, torture e crudeltà per fiaccare il morale dei ribelli.

Emblematico è il caso di Cufra, città considerata da Graziani il “centro di raccolta di tutto il fuoriuscitismo libico”, che venne bombardata a tappeto e, una volta presa, saccheggiata per tre giorni tra violenze di ogni tipo. Le atrocità documentate e riemerse grazie al lavoro di storici come Angelo Del Boca sono impressionanti e parlano di stupri, decapitazioni, evirazioni, di donne incinte squartate, bambini gettati in calderoni pieni di acqua bollente, anziani a cui venivano cavati gli occhi e strappate le unghie. Anche armi chimiche come il fosgene e l’iprite, vietate dalla Società delle Nazioni nel 1925, continuarono a essere utilizzate dall’Italia in Libia fino al 1931. In quello stesso anno, il quotidiano di Gerusalemme Al Jamia el Arabia pubblicò un manifesto in cui si ricordavano “alcune di quelle atrocità che fanno rabbrividire: da quando gli italiani hanno assalito quel paese disgraziato, non hanno cessato di usare ogni sorta di castigo senza avere pietà dei bambini né dei vecchi”.

Secondo Dominioni, il risultato di questa campagna di sterminio furono circa “100mila vittime e la struttura sociale del paese completamente stravolta”, ma così facendo la ribellione fu sedata e la zona più fertile della Libia divenne libera per la colonizzazione italiana. Dalla memorialistica citiamo due diari: quello di Ciro Poggiali, inviato del Corriere della Sera, che descrive “lo scempio” compiuto, dopo l’attentato a Graziani, “contro gente ignara e innocente”, tra cui donne, anziani, bambini e quello di Elvio Cardarelli, che annota le continue rappresaglie in cui il “fuoco purificatore” distruggeva villaggi “con tutti gli abitanti (comprese donne e bambini)”.

Ferdinando Martini, scrittore, parlamentare, governatore civile dell’Eritrea dal 1897 al 1907, ministro delle colonie nel biennio 1915 -16, riporta nel suo diario, pubblicato in quattro volumi tra il 1942 e il 1943, il caso di un ufficiale che aveva portato via dalla missione che la ospitava una ragazzina per farne la sua concubina e di altri occupati “a tirar su bambine a minuzzoli di pane” per conseguire lo stesso scopo. Anche Maria Messina, un’italoeritrea nata all’Asmara nel 1917, intervistata da Barrera nel 1996, testimonia un incremento delle molestie e degli stupri dopo la conquista, attribuendolo all’arrivo delle camicie nere, molto più violente dei “vecchi coloniali”. Ladislav Sava, un medico ungherese che si trovava ad Addis Abeba al momento dell’occupazione italiana, ha raccontato nel 1940 al settimanale londinese New Times & Ethiopia News, diretto da Sylvia Pankhurst, di aver personalmente assistito alla “deportazione di donne etiopiche in case convertite con la forza dai militari italiani in postriboli”.

Non dovremmo dunque dimenticare gli orrori di un passato di cui spesso rivendichiamo orgogliosamente i meriti, nella consapevolezza che la pagliuzza nell’occhio del nostro fratello non può essere il pretesto per ignorare la trave nel nostro occhio.

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