17 Giugno 2014

Palermo, immigrazione: “Devo chiamare casa, mio fratello è morto. Devono sapere che io sono vivo”

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Alcuni sono sdraiati sui letti. Altri sono riuniti in piccoli gruppi davanti l’ingresso della struttura. Altri ancora sono seduti per terra, uno accanto all’altro, come erano sul ponte della nave della marina militare Etna quando, ieri mattina, sono arrivati al porto di Palermo. Si tratta degli ultimi sbarchi sulle coste siciliane, ragazzi poco più che maggiorenni che hanno viaggiato nelle ultime settimane con la speranza di ottenere un futuro migliore.

(blogsicilia.it)

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L’accoglienza dei migranti a Palermo. Nell’ex scuola del Villaggio Ruffini, a Palermo, dovrebbero essere 170 i migranti accolti e assistiti dalla Caritas. Un conto preciso però è piuttosto difficile dato che nessuno li obbliga a firmare i fogli forniti dai volontari e in alcuni casi loro preferiscono sottrarsi all’identificazione. Sono tutti uomini, la maggior parte ragazzi. Molti sembrano minorenni, ma quando li si avvicina per chiedere loro quanti anni hanno rispondono “Eighteen”, diciotto, senza esitazioni. Hanno mangiato, hanno dormito, hanno finalmente potuto fare una doccia, indossare vestiti puliti e lavare come potevano quelli che avevano indosso da quando hanno iniziato il loro viaggio della speranza. Hanno lo sguardo perso nel vuoto, si guardano intorno e non hanno molta voglia di parlare.

L’intervento e gli aiuti della Caritas. “Sono diffidenti – spiega all’Adnkronos uno dei volontari della Caritas con loro sin da ieri – anche con noi parlano poco e di solito lo fanno solo dopo qualche giorno che sono qui e cominciano a conoscerci”. Un sacerdote si allontana per discutere con i volontari e un ragazzo alto, dalla pelle scura, gli si avvicina per chiedergli “abbiamo finito?”. “Vogliono confessarsi – spiega il prete – o per meglio dire cercano conforto da quello che hanno vissuto e in noi vedono delle figure di cui fidarsi”.

Il dramma dei migranti. “Devo chiamare casa – dice uno di loro all’Adnkronos – mio fratello è morto. Devo avvisare la mia famiglia. Devono sapere che solo io ce l’ho fatta”. Lui e suo fratello erano a bordo di quel gommone che venerdì è affondato a circa 40 miglia dalle coste della Libia. Sulla barca ci sarebbero state una novantina di persone ma solo 39 sono state tratte in salvo e altri dieci corpi senza vita sono stati recuperati in mare. Del viaggio non vuole raccontare nulla, i particolari di quel naufragio non vuole condividerli o preferisce non ricordarli. In uno stentato inglese continua solo a ripetere che deve chiamare casa, ma quando i volontari lo cercano per capire meglio la sua storia, nessuno sa più indicare chi è o dov’è.

(adnkronos.com)

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