Varese | 19 Agosto 2019

Terra di leggende, “Il Regno delle Bocce”: El Pinella

Era rimasto basso, con una passione sconfinata per le bocce. Era disposto a qualunque birbonata pur di accedere ai campi dove si esibivano i suoi idoli

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(articolo di Roberto Araldi Bramani) Per tutti era sempre “El Pinella” anche se ormai del ragazzino non aveva affatto le sembianze. Piccolo lo era di sicuro, alto un metro e cinquanta ad essere molto, ma molto generosi, ma l’età non concedeva sconti: bastava guardarlo in volto per capire che tutto era fuorché un “pinella”, secondo il dialetto lombardo più consueto nel quale il termine pinella era, nel medesimo tempo, sinonimo affettuoso di piccolo di statura, ma soprattutto d’età.

El Pinella era rimasto basso, con una passione sconfinata: era fanatico delle bocce, per le quali era disposto a qualunque birbonata pur di accedere ai campi dove, nella sua fervida fantasia di ragazzo, si esibivano i suoi idoli, i campioni, anche se solo del luogo, anche se limitati al “paese” nel quale abitavano.

Li seguiva con attenzione, ne studiava i movimenti, cercando di carpire il segreto della loro bravura e, appena abbandonavano il campo, si precipitava a catturare le bocce riposte nella cassetta – quelle più scassate, lasciate lì per “i dilettanti” – per imitare, sforzandosi, giorno dopo giorno, di migliorare l’accosto, la bocciata. Sì, la bocciata lo affascinava in modo particolare: diventato adulto e rimasto sempre piccolo, con due manone spropositate che esteticamente non rappresentavano il massimo, ma gli consentivano d’impugnare saldamente e di scagliare senza deviazioni, con una traiettoria secca, violenta, tesa, del tutto personale.

Si raggomitolava prima di lanciare, diventando ancora più “pinella”, la rincorsa breve, velocissima, poi la boccia partiva quasi rasente il terreno – per lui era più semplice, così basso – una leggera rotazione all’indietro del polso durante il lancio e il proiettile colpiva inesorabilmente il bersaglio scelto, fermandosi a pochi centimetri dal luogo dov’era posto la boccia dell’avversario poco prima.

Accostava spesso così, quasi ci fosse una mano magica e invisibile a spostare, a sostituire, rendendo tremendamente difficile a chi lo incontrava anche solo scegliere la strategia più conveniente per difendersi. Come li amava quegli oggetti rotondi, lisci, dai colori vivaci, oppure monotonamente spenti, li sentiva parte integrante del braccio, della mano, un prolungamento di carne e ossa che obbediva puntiglioso, senza proteste, agli impulsi della mente, dell’istinto.

A dir il vero amava parecchio le donne, quelle dal metro e settanta in su, quelle alte, insomma. Il suo sogno erano le gemelle Kessler e, siccome questa sua passione per l’altro sesso era esternata, come ben si conviene, nelle chiacchiere in libertà e un po’ grossolane da bar, era oggetto di lazzi e di battutacce da parte degli occasionali compagni di conversazione, ma “el pinella” non se ne curava, abbozzava un sorriso, un “Guarda che se ti becco in gara non ti faccio fare nemmeno un punto, ti rifilo un “cappotto” quale non hai mai visto, anche se siamo in piena estate. Neanche per compassione ti faccio fare un punto: a zero ti lascio!”.

Era proprio così, cattivo in campo, una grinta agonistica unica, spietato, concentrato, mai un sorriso, viveva in una bolla, in campo. Poi, una volta disintegrato il poveretto che aveva la sorte d’incontrarlo, diventava gioioso, burlone anche, tornava “pinella” a tutto tondo, quasi una regressione simbolica verso il bambino che il suo corpo imprigionava a dispetto della corsa degli anni, tornava a sognare le sue “stangone” come si compiaceva di definirle e a premeditare altre vittorie, a infliggere sconfitte cocenti, consapevole di aver superato gli idoli di quando era per davvero “pinella”.

Nel Regno delle Bocce è così: i miti si perfezionano giorno dopo giorno e sono sempre pronti ad essere celebrati, perché le leggende possono solo crescere, non si estinguono mai.

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