Luino | 14 Aprile 2019

“Durmìi de la quarta”, un prezioso ricordo di famiglia

Giorgio Roncari, attraverso le parole del padre, racconta la cultura del baco da seta. "Dava da fare solo un mese e mezzo, ma era un grosso lavoro per tutti"

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(Articolo di Giorgio Roncari – fonte L’eco del VaresottoTel sê se ìn i bigatt?“, esordì un giorno mio padre che ogni tanto mi raccontava di cose vecchie che non c’erano già più quando ero un bambino io. “I bachi da seta” precisò davanti alla mia perplessità.

Una volta il baco da seta lo tenevano su tutti, era un grande aiuto economico per la gente ed era una cosa vecchia come il cucù”. In effetti era una cultura tanto antica che pare risalga addirittura al VI secolo, quando due monaci trafugarono dalla Cina a Costantinopoli le uova del baco da seta, nascoste entro il cavo dei loro bastoni di bambù.

Dava da fare solo un mese e mezzo in primavera ma era un grosso lavoro per tutta la famiglia. Si cominciava a maggio quando i ‘murun’ – gelsi neri – mettevano le foglie, perché i ‘bigatt’ erano ‘leccardi’ – golosi – e mangiavano solo la foglia del ‘murun’. Allora si andava nelle ‘galetere’ – incubatoi – a comprare la ‘sumenza’ – semente del baco – che erano una miriade di minuscoli ovetti attaccati a dei fogli, depositati da una farfalletta l’anno prima”.

Mio padre si esprimeva in dialetto, quindi non usava queste parole ma il concetto, tradotto, è lo stesso. “Dalla ‘sumenza’ nascevano delle larvette piccole come formiche che venivano messe in una stanza, sulle ‘grà a galetere’ – graticci sovrapposti o tavoli. I bachi non dovevano prendere freddo e neppure umidità, e se il clima andava giù si doveva accendere il camino, ma non doveva far fumo altrimenti morivano. Col baco bisognava stare attenti perché poteva essere colpito da malattie come ‘ul gialdin e ul calcin’ – giallume e calcino – capaci di fare stragi e allora addio guadagno”.

E’ per quello che è rimasto il modo di dire ‘c’è entrato il calcino’, riferendosi a susseguenti episodi luttuosi in una famiglia. “Ogni giorno ‘nüngh fiö’ – noi bambini – andavamo a raccogliere le foglie dai gelsi, una volta ce n’erano dei lunghi filari nella campagna; tagliate sottili divenivano cibo per le larve. Non dovevano essere umide perché i bachi erano sofistici e non le mangiavano. I filugelli – diceva proprio filugelli, forse per stupirmi – avevano due occhietti neri come una capocchia di spillo e uguale la bocca. ‘Resignavano – rosicchiavano – in continuazione, facendo un sordo rumore de ‘ganass’ – mandibole – e ce ne volevano tante di foglie”.

Ho letto che per far maturare i bachi nati da un’oncia, di seme ne occorreva una tonnellata. “in poco tempo diventavano grossi e bisognava aggiungere altre ‘gra’ per farceli stare. Avevano tre mute e alla fine diventavano grossi come il mignolo di una mano, quasi trasparenti. A quel punto erano pronti per ‘andare al bosco’, ovvero si arrampicavano su fascinette d’erica o ginestra, poste di fianco ai graticci. Allora cominciavano a fare la ‘galetta’, a filarsi il bozzolo attorno. Era una cosa che facevano insieme e nel giro di pochi giorni si racchiudevano tutti. A quel punto erano pronti per essere raccolti e bisognava fare in fretta, perché altrimenti indurivano e non erano più adatti per la seta. Si faceva per prima la sbozzolatura, ovvero si staccavano i bozzoli dai rami, si controllava che non avessero difetti e si pulivano dalla lanuggine esterna. Venivano quindi portati a piedi, con la gerla in spalla, nelle seterie della valle. In fabbrica, per ricavare la seta, facevano morire le larve col vapore, poi mettevano a bagno il bozzolo in acqua bollente. Al momento giusto i ‘canai’ – ragazzini – impegnati in filanda ‘scuinaven’, ossia prendevano il capo del filo e lo passavano agli operai che lo fissavano ad una spoletta rotante. Il filo di seta era resintentissimo e raramente si rompeva. Venivano pagati bene ed era un buon guadagno per i contadini. Poi, dopo la guerra, è arrivato il nylon e altre fibre artificiali, e il baco è sparito”.

Tel sê parchè se dis ‘durmìi de la quarta?‘”, mi chiedeva ancora mio padre. Si riferiva a quando il baco si racchiudeva nel bozzolo, che corrispondeva alla quarta muta, e andava in letargo. “Va quanti ropp el te insegna ul to pà”, concludeva sorridendo e dandomi un buffetto. 

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