17 Gennaio 2017

Migranti ed Alto Varesotto, educare all’ospitalità vuol dire ripensare al quotidiano

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(Diego Intraina) Strumentalizzare la reale percezione dell’ospitalità risulta inopportuno e dannoso al fine di un’accoglienza che voglia essere capace di trasformare quel che è percepito come un limite, in un’effettiva opportunità. L’esperienza vissuta a Maccagno è solo uno dei molti esempi di realtà territoriali che con fatica cercano di prendere le misure di quella che è un’accoglienza positiva, e che come tale, abbisogna di migliorie finalizzate a dei risultati ottimali. La percezione del limite, dato dal fatto che i soli strumenti presenti sul territorio non sono sufficienti, insieme alla buona volontà, a restituire un risultato qualitativamente valido, è un primo e consapevole passo in questa direzione. Le strategie dell’accoglienza, avendo creato occasioni di supporto rivolte ai soli migranti, hanno mostrato la mancanza di una visione d’insieme, laddove la complessità di tale processo debba contemplare anche, e soprattutto, adeguati e ponderati strumenti a supporto di coloro che di tale progetto si fanno fautori. Ecco l’analisi di Diego Intraina.

(ansa.it)

(ansa.it)

Migranti ed Alto Varesotto, educare all’ospitalità vuol dire ripensare al quotidiano. “In questi giorni ho potuto leggere diverse e bifocali considerazioni sulla presenza dei migranti e a malincuore mi chiedo, pensando al comune di Maccagno con Pino e Veddasca, per le conoscenze dirette che ho, come mai istituzionalmente si cerca in vari modi di strumentalizzare, oppure velare, la reale percezione sull’ospitalità. Ritengo tale operazione inopportuna, viso che risulta più che evidente che esistono pensieri (maggioritari?) che non sono proprio da considerare felici. Velare le reali difficoltà non mi sembra il modo giusto per affrontarle e risolverle. Sono quasi certo che verrò frainteso, ma chi mi conosce sa da che parte sto e questo m’è sufficiente per permettermi di affrontare questo tema con la necessaria serenità. Voglio ricordare alcune dichiarazioni dove si è più volte ripetuto che il numero adeguato d’ospitalità per le piccole comunità è di massimo 5/6 persone, affermazioni che in parte trovo comprensibili, ma altrettanto inutili visto che vengono subito smentite dagli eventi, obbligandoci a ben altre considerazioni e reazioni. Evidentemente, il problema non sta nei numeri, non è quello di discutere e stabilire un inutile numero, ma è quello di dover capire come eticamente affrontare la questione, in questo caso d’emergenza, e come gestirla nel miglior modo possibile senza abbandonarsi a buonismi che non aiutano la verità delle cose.

Maccagno come caso studio. Dire che ‘l’ambiente maccagnese offre una (…) grande disponibilità manifestata dai nostri Concittadini (…)’ vuol dire voler ostinarsi a tenere chiusi gli occhi. Mi permetto di suggerire, a quelli che la pensano in questo modo, di frequentare diversamente gli ambienti del paese, solo così potranno verificare che proprio in quelli ambienti, oltretutto anche i meno discutibili come la Parrocchia, esiste il peggior malcontento e un acceso e assoluto pregiudizio. Sarebbe opportuno, a questo punto, chiederci tutti il perché di questi pensieri e non insistere nel far finta di nulla. Rallegrarsi, strumentalizzando la ‘buona disponibilità dei cittadini’, potrebbe prima o poi portare a dei fenomeni spiacevoli che sicuramente non aiuteranno l’indispensabile coesione sociale necessaria per ricercare una qualità della vita serena e comunitaria. Non c’è bisogno di fare degli esempi, basta guardare giornalmente la televisione.

A cosa dobbiamo tali distorsioni che l’occasione della realtà dell’accoglienza può offrire? Facciamoci dunque delle domande: E’ forse per l’impreparazione allo spirito di integrazione che i pensieri pre-giudiziali risultano deviati? E’ forse la percezione di ‘ghettizzazione’ che aleggia e si percepisce nella comunità, a cui sembra che nessuno sia in grado di reagire, che chiude alla paura dell’altro procurando le inevitabili condizioni d’imbarazzo sociale? E’ il (ritornato) fenomeno del nomadismo dell’emergenza, questo arrivo e continuo spostamento di persone a cui non siamo abituati e che mina la nostra percezione del valore d’identità e del bene comune della cittadinanza? Ma questa mancata re(L)azione non richiama forse ad un bisogno d’investimento pedagogico mirato?

Il necessario affiancamento pedagogico a coloro che accolgono. Attenzione non sto pensando ad una implementazione delle conoscenze da dare ai migranti, corsi d’italiano ecc. (che ben vengano), anzi penso ad un affiancamento pedagogico fatto proprio a coloro che accolgono. Un supporto educativo che sappia portarci oltre la fredda dimensione della percezione. Perché è di questa dimensione problematica elaborata e tradotta il più delle volte nell’individuale opinione che stiamo parlando quando si discute di ospitalità d’emergenza. La domanda da farsi è: dove si può più facilmente dialogare con questa dimensione capillare per uscire da questo ambito individualista? La risposta non può che essere nel mondo associativo. È principalmente nei luoghi cittadini dove si instaurano condizioni di collettivizzazione che, prioritariamente, si dovrebbe agire con dei mirati e coordinati supporti educativi. Le associazioni sono nodi territoriali strutturanti la società civile, sono i laboratori, gli amplificatori e i custodi di relazioni etiche che alimentano la fiducia nel prossimo. La loro messa in rete, la tra di loro continua e orizzontale dinamica relazione è l’azione che qualifica la realtà. È per questo motivo che penso che le Istituzioni Amministrative quando assumono il giusto onere di ospitare, debbano anche preoccuparsi di preparare o di dissodare il proprio terreno in modo da renderlo fertile e ‘protetto da possibili devianze di pensiero’. Il modo più semplice d’agire per affrontare tale preoccupazione, è quello d’affiancare, alle differenti e contestuali realtà associative molto diverse tra loro, seri e coordinati strumenti pedagogici e progetti co-educativi. Entrare in questo ordine d’idee vuol dire, giustamente dopo le esperienze in corso e le difficoltà relazionali tra i diversi enti, considerare che le singole realtà non sono autosufficienti nell’affrontare un coinvolgimento extra-associativo. Vuol dire pertanto ritenere indispensabile un intervento che offra a loro un aiuto: una nuova presenza professionale con specifiche conoscenze; una figura che sappia interpretare e trattare le complesse dinamiche del caso e di conseguenza gestisca un predisposto ufficio di coordinamento che, a sua volta, sensibilizzi e coordini le attività e, periodicamente, affronti le opportune verifiche di sistema.

Il silenzioso disagio da trasformare in felici opportunità con l’ausilio di strumenti specifici ed adeguati. Non preoccuparsi o non capire che, in un paese come Maccagno, il quotidiano e i suoi automatismi (esempio quelli dell’Oratorio con le sue ultime vicissitudini di vandalismo di risposta all’ospitalità, e potrei farne molti altri) possono essere disorganizzati da una semplice visiva presenza ‘estranea’ (non supportata da progetti di interazione) di trenta o più persone, vuol dire voler ignorare i veri e delicati problemi di relazione e di percezione di cui e in cui vivono tali ambienti. Ma, forse dobbiamo chiederci, chi deve (ri)conoscere queste sensibili problematiche per poterle organizzare strutturalmente in modo da evitare disagi irreversibili? In questi casi la generale responsabilità è sicuramente da condividere, però è anche evidente che una presenza professionale ed educante e coordinatrice deve essere perlomeno individuata, garantita e pianificata dall’Autorità Amministrativa. Non sono sufficienti poche riunioni pubbliche, o qualche articolo sui giornali, per correggere una preoccupata percezione; bisogna che queste figure educanti (da individuare) interagiscano (pre e post) empaticamente con gli ambienti (e non solo ‘verticalmente’ con i pochi e impotenti referenti), in modo che questi vengano preparati, collettivamente, ad affrontare e condividere prevedibili ‘disagi’. È solo avanzando attrezzati con un progetto educante che questi ‘disagi’ potranno trasformarsi in felici opportunità, se no, viceversa, si trasformeranno in un doppio problema irrisolvibile. Questo disagio, e spero di sbagliarmi, è quello che sta purtroppo silenziosamente avanzando nella realtà maccagnese. Sappiamo tutti che l’ospitalità integrante è una ‘realtà nuova’ e difficile, e sappiamo anche che per ragioni etiche e di responsabilità civile non possiamo tirarci indietro; dobbiamo dunque essere consapevoli di dover riconoscere che risulta, per l’appunto indispensabile, oltre la nostra disponibilità nel farci coinvolgere anche la disponibilità di farci aiutare.

La consapevolezza della necessità di figure professionali esterne capaci di analizzare, agire e relazionarsi con le peculiarità delle singole realtà. Dobbiamo essere consapevoli della necessità di una presenza che svolga un ruolo di supporto formativo esterno e che educhi tutti noi a superare, attraverso strutturanti processi di condivisione e di prossimità, le asperità e le debolezze indotte dal rigido e pregiudiziale localismo. Sto parlando di una presenza di educatori/facilitatori che non possono essere sostituiti nel loro compito di analisti, progettisti e animatori, né dai Sindaci, né dai Parroci e sarebbe meglio nemmeno dai dipendenti o volontari di qualche Associazione (personalità ed Enti indispensabili alla causa, ma non adatte per questo ruolo di coordinamento relazionale). Sto pensando a delle figure professionali esterne che sappiano analizzare le singole realtà e successivamente forzare e coordinare la relazione tra le differenti associazioni presenti. Ruolo sicuramente d’aiuto per elaborare la concretizzazione di nuovi progetti di collaborazione e di condivisione collettiva: educare ad una visione performativa il tessuto associativo, conseguentemente l’intera comunità, al fine di creare nuove forme condivise di creatività sociale collegabili alle opportunità territoriali esistenti.

La necessaria presa di coscienza che la buona volontà da sola non è sufficiente. Questo spirito progettante di relazione è quello che oggi sembra debole, o perlomeno poco considerato nella nostra realtà locale. Realtà locale che nonostante la ricca presenza associativa, proprio per la mancanza di tale figura educante e relazionante e del suo annunciato giustificabile operato di senso, viene percepita come se fosse caduta in balia della casualità degli eventi. Non dobbiamo perseverare nell’errore di pensare che è sempre sufficiente, e in questi casi l’esperienza direbbe mai, la buona volontà. Pensare onesta la decisione di lasciare ai singoli ambienti associativi l’autogestione del problema o, all’inverso, subordinandoli ad una autonoma organizzazione esterna come sembra percepibile in Maccagno (situazione percepibile prima o poi come colonizzante e poco trasparente) è un errore. È un errore perché, qualora ce ne fosse bisogno, risulta essere difficilmente accettabile e difendibile da un pensiero e comportamento collettivo.

Oppure pensare sufficiente la decisione di delegare la risoluzione alla fede individuale, dimenticandosi che la stessa fede troppo spesso viene sopravalutata credendola inossidabile e che andrebbe invece considerata (come ci insegnano i Padri) debole e indifesa. Questi comportamenti sono da ritenere sbagliati perché da irresponsabili. Il territorio, è innegabile, per riuscire a rispondere positivamente all’avanzare delle nuove problematicità esistenziali ha bisogno della presenza di professionalità educanti.

‘Più in alto della realtà si trova la possibilità’. Il territorio deve capire che la sua unica e vera risorsa e ricchezza è quella di contribuire a stimolare il moltiplicarsi delle relazioni e la formazione continua e generosa delle associazioni presenti. La preparazione e l’adeguatezza nell’affrontare determinate condizioni, causate da cause esterne, diventa nodo necessario per il funzionamento fluido e creativo del reticolo sociale e molto spesso luogo di elaborazione del Senso e di conseguenza del conSenso. Dobbiamo elaborare nel pensiero comune l’idea che ‘più in alto della realtà si trova la possibilità’ e che dunque questa possibilità vada ricercata a tutti i costi, anche mettendo in discussione le proprie certezze e le presunte capacità.

Chiudo, ma non senza ringraziare tutti coloro che sino ad oggi hanno messo a disposizione il loro tempo e le loro speranze per questa giusta causa”.

Si chiude così l’articolo di Diego Intraina.

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