L’Africa potrebbe diventare il posto adatto dove realizzare coltivazioni OGM, ci credono le industrie alimentari, i politici e gli scienziati europei che in questi ultimi mesi hanno compiuto diverse missioni nel continente africano per individuare le condizioni adatte, climatiche e territoriali, ma soprattutto politiche, per impiantare coltivazioni bandite dal territorio europeo. A chi gioverà questa “patto”? A colonizzatori o colonizzati?
Questa settimana sono previsti incontri tra consulenti scientifici pro-OGM della Commissione europea provenienti da Germania, Ungheria, Italia e Svezia, guidati dalla responsabile Anne Glover, ed i ministri dell’Agricoltura dell’Etiopia, del Kenia, Ghana e Nigeria. Secondo il Consiglio europeo dell’Accademia delle Scienze (EASAC), l’incontro è destinato a promuovere la collaborazione tra vecchio continente e Paesi africani per sviluppare una collaborazione sulle coltivazioni geneticamente modificate.
Non mancano le critiche a questa politica, definita ‘neo colonizzatrice’, da parte dei movimenti ambientalisti (“l’Africa è l’ultima frontiera per l’agricoltura commerciale su larga scala”) che denunciano come dalla coltivazione delle sementi OGM non derivi alcuna certezza di un beneficio a favore delle popolazioni locali ma solo un modo subdolo per aggirare i divieti di coltivazione sul territorio europeo.
Secondo il Servizio Internazionale per l’Acquisizione di Applicazioni Agri-biotech (ISAAA), oltre al Sud Africa, dove si impiantano cresce colture alimentari geneticamente modificate, il Burkina Faso ed il Sudan dove invece viene coltivato il cotone OGM, i Paesi africani dove si dovrebbero avere entro il 2017 le prime coltivazioni OGM di massa sono il Camerun, l’Egitto, il Ghana, il Kenya, il Malawi, la Nigeria e l’Uganda .
I dati annuali dell’ISAAA dimostrano che gli agricoltori statunitensi nel 2013 hanno piantato 70.1 ml di ettari di colture OGM, meno dell’1% in più rispetto al 2011 e 2012 e gli ultimi dati mostrano che il 77% delle colture mondiali OGM sono coltivate principalmente in tre paesi -il 40% negli Stati Uniti, il 23% in Brasile e del 14% in Argentina – con impianti insignificanti in Europa e in Africa.
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