29 Marzo 2014

Ticino (CH): sempre più incertezza per le aziende. L’OCST apre al confronto, ma cosa cambierà nelle tasche dei frontalieri?

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Maggiore tassazione per i frontalieri ticinesi e più incertezza per l’intero impianto industriale ticinese. Sono questi due degli aspetti più importanti che il referendum sull’immigrazione di massa ha comportato sulla vita socio-economico-politica del Ticino e degli italiani che lavorano oltre confine.

La sede di Biasca dell'azienda Helsinn (piona.ch)

La sede di Biasca dell’azienda Helsinn (piona.ch)

La proposta, sulla quale il Parlamento elvetico aveva espresso il proprio parere contrario, è stata fortemente sostenuta dal partito di destra e antieuropeista dell’Unione Democratica di centro e dalla Lega dei Ticinesi, il partito affine alla nostra Lega Nord che non vede di buon occhio i 60mila lavoratori frontalieri che ogni giorno varcano la frontiera fra Italia e Svizzera, alla ricerca di stipendi più remunerativi e una migliore organizzazione lavorativa. Questo ha causato una totale incertezza sia per quanto riguarda le aziende ticinesi, sia rispetto ai frontalieri italiani impiegati oltre confine.

Come spiega l’articolo del Corriere del Ticino “Aziende via dal Ticino? Un’opzione” il clima che si respira è quello della totale incertezza delle aziende che “hanno reso noto di aver congelato progetti di spessore. Dopo il caso della Helsinn ora è il turno della Precicast, in effetti, ad aver annunciato la sospensione di un importante investimento che amplierebbe la produzione e l’occupazione.”

Le preoccupazione dell’OCST, il Sindacato dell’Organizzazione Cristiano Sociale Ticinese, in una sua presa di posizione spiega: “da un lato si teme la carenza di personale particolarmente qualificato poiché non sono chiari i contorni del futuro congingentamento della manodopera estera”. E d’altro canto “rimane il dubbio che, qualora non si raggiunga una soluzione conciliabile con il principio della libera circolazione e perciò accettabile dall’UE, possano uscirne intaccati gli accordi bilaterali e i vantaggi che ne traggono le imprese.”

Il giornalista Andrea Colandrea scrive nell’articolo sul sito CdT.ch: – La situazione è seria e preoccupante. Parole d’ordine sono: confronto di tutti i partner toccati – Stato, imprese e sindacati – e collaborazione. L’OCST, tramite il suo segretario cantonale Meinrado Robbiani, chiede in particolare che sia costituito un “quadro associativo capace di consolidare la volontà delle aziende industriali di puntare con convinzione sul Ticino”. Secondo il Sindacato cristiano sociale, “occorre fare un tentativo per evitare che si instauri anche nel settore industriale un clima di rinuncia a puntare sul futuro del nostro Cantone che offre atout di pregio. Oggi più che mai è necessario crederci fino in fondo e lavorare insieme nella stessa direzione per non far passare messaggi rinunciatari, al di là del clima che vige nella politica ticinese in materia di libera circolazione e frontalierato, non certo dei più costruttivi, per usare un eufemismo”. In effetti, chiosa Robbiani, “senza un impegno concreto in questo ambito anche sul fronte padronale, ne risulterebbe indebolito l’obiettivo comune che deve essere quello di tendere ad un rafforzamento delle prospettive di sviluppo del nostro Cantone”.

L’articolo “Aziende via dal Ticino? Un’opzione” continua: – Dal canto suo anche il direttore dell’AITI, Associazione delle industrie attive nel Cantone Ticino, Stefano Modenini conferma che in Ticino diverse aziende starebbero attendendo di mettere in atto investimenti importanti già pianificati: “Prima vogliono vedere cosa capiterà il 18 maggio con la votazione sui salari minimi, poi decideranno”. A preoccupare è l’eventuale sostegno a un minimo salariale decretato al di fuori dalla consueta contrattazione, spiega lo stesso direttore dell’Associazione industrie ticinesi. “Ci sono realtà aziendali che valutano se tutte quelle attività a minor valore aggiunto dove sono in vigore salari inferiori ai 4 mila franchi saranno mantenute in Ticino oppure spostate altrove”. Inoltre, aggiunge, dopo il 9 febbraio resta forte l’incertezza per l’assunzione di personale qualificato che non si sa se potrà essere assunto qualora venissero introdotti nuovamente i contingenti”. Il rischio, conclude Modenini, è che “se andiamo avanti di questo passo rischiamo di perdere un’importante parte di tessuto produttivo, che sarà inesorabilmente destinato a impoverirsi sul nostro territorio”. Segnali in questa direzione, purtroppo, hanno già cominciato a rendersi visibili.

Per quanto riguarda l’aumento dell’imposizione fiscale verso i frontalieri, invece, il Gran Consiglio ticinese ha approvato il principio dell’iniziativa Udc che ne chiedeva l’aumento. Come ha spiegato la Rsi “si chiede che il moltiplicatore di riferimento, finora una media di quelli comunali (78% nel 2013), sia portato al 100%. Secondo gli iniziativisti, nelle casse comunali entrerebbero 20 milioni di franchi supplementari, di cui comunque il 38,8% da riversare ai comuni italiani di frontiera come stabilisce l’accordo con Roma sempre in vigore”. I frontalieri si vedrebbero così trattenuti circa 330 franchi all’anno e cioè 27 franchi (22 euro) al mese. Ovviamente la cifra è frutto di una media, mentre l’aumento delle imposte per ciascun lavoratore andrà calcolato a seconda del salario e del settore in cui lavora.

Questi soldi, che verranno versati da circa 60mila frontalieri italiani, andrebbero a coprire ulteriori spese per i servizi di polizia, per le strade, le scuole e la sanità. Ora, però, la palla passa al Consiglio di Stato che dovrà tramutare in certezza questa proposta. La tv svizzera spiega che “restano alcune incertezze giuridiche. La conformità al diritto superiore sembra garantita (per l’autonomia fiscale cantonale), ma non quella al principio di parità di trattamento tra contribuenti residenti e non residenti che si trovano in una situazione comparabile”.

Infine, le comode notifiche “online” per i cosiddetti “padroncini” e lavoratori distaccati saranno abolite per volontà Gran Consiglio ticinese. D’ora in avanti chi intenderà esercitare la propria attività in Ticino per un periodo massimo di 90 giorni in un anno, come prevede l’accordo di libera circolazione con l’UE, dovranno presentarsi ad uno sportello con una documentazione cartacea e non potranno più notificarsi in internet come è avvenuto finora. Così, gli elettricisti, operai e piastrellisti dovranno tornare all’antico e presentarsi fisicamente agli sportelli per ottenere le autorizzazioni necessarie.

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